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Professioni regolamentate e mercato nell'Unione europea

Regulated professions and market in the European Union

Autori: Anna Montanari ( Assegnista di ricerca nell'Università di Bologna )
email: a.montanari@unibo.it
Riferimenti:
Keyword:Diritto del lavoro-Professioni
Abstract

L’Autore analizza la disciplina delle professioni regolamentate nel diritto dell’Unione europea e il suo impatto sull’ordinamento italiano, approfondendo tre aspetti: il sistema di riconoscimento delle qualifiche professionali, la libertà di circolazione degli esercenti la professione forense e il rapporto tra professioni e principi in materia di concorrenza.  

The author examines the discipline of regulated professions in the European Union Law and his impact on the Italian Law and developed three aspects: the system of recognition of professional qualifications, the freedom of movement for lawyers within the Union and the relationship between professions and principles of competition.


Professioni regolamentate e mercato nell'Unione europea

 

Sommario [*]: 1. Premessa 2. Professioni e libera circolazione nell’Unione europea – 3. L’attuazione della libertà di circolazione dei professionisti – 4. La direttiva 2005/36/CE sul riconoscimento delle qualifiche professionali – 4.1. Il regime del riconoscimento per la libera prestazione dei servizi – 4.2. Segue. E per la libertà di stabilimento – 4.3. Il recepimento della direttiva nell’ordinamento italiano: il d.lgs. 9.11.2007, n. 206 – 5. La professione forense e la libera circolazione degli avvocati – 5.1. La direttiva 77/249/CEE sulla libera prestazione di servizi da parte degli avvocati – 5.2. Segue: L’attuazione della direttiva 77/249/CEE nell’ordinamento italiano: il caso Gebhard – 5.3. La direttiva 98/5/CE e le prospettive della libertà di stabilimento degli avvocati – 5.3.1. La figura dell’avvocato assimilato – 5.3.2. L’esercizio “in forma comune” della professione – 5.4. L’applicazione della direttiva 98/5/CE con particolare riferimento al recepimento nell’ordinamento italiano – 6. Professioni e concorrenza – 6.1 Le tariffe – 6.2. La pubblicità – 6.3. L’esercizio in forma integrata della professione – 6.4. Le prospettive del sistema italiano.

1. Premessa

Il rapporto tra il professionista e l’ordinamento comunitario si è delineato, sin da subito, come denso di contrasti discendenti, primariamente, dalla difficoltà di coniugare le regolamentazioni nazionali delle attività professionali con i principi che connotano il sistema comunitario. Le prime, infatti, generano fuor di dubbio, effetti protezionistici tali da escludere le professioni da un confronto completo con il mercato – anche se tale affermazione oggi deve essere valutata alla luce dei recenti interventi dei legislatori nazionali –, ciò in evidente contrasto con gli obiettivi di liberalizzazione del contesto economico che si prefigge di raggiungere il secondo.

Questo aspetto ha contribuito a rallentare il procedimento di armonizzazione a livello comunitario della disciplina delle professioni , ma non è stato l’unico. Essa è stato ostacolato sia dalle difficoltà scaturenti dalla presenza di differenti sistemi di formazione per l’esercizio delle professioni – che hanno stimolato le iniziative nel campo del riconoscimento dei titoli – sia dall’assenza, nel diritto comunitario primario, di una base giuridica specifica che permettesse alla Comunità di intervenire. I Trattati, infatti, non regolano esplicitamente le professioni, ma esse assumono comunque rilievo in quanto collegate alle tematiche della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Tale prospettiva è coerente con lo scopo che perseguono le istituzioni comunitarie, ossia non di regolare le professioni in quanto tali – poiché tale compito spetta ai governi nazionali o alle associazioni professionali –, bensì di rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione nell’Unione europea dei professionisti quale categoria di operatori economici. Tale obiettivo viene perseguito, sia abolendo le restrizioni connesse ai requisiti della nazionalità e della residenza, sia assicurando il riconoscimento delle qualifiche professionali come idonee a garantire l’accesso alle professioni in uno Stato membro diverso da quello ove sono state conseguite.

Alla mancanza, nel diritto comunitario primario, di una disciplina ad hoc si accompagna, come è ovvio, l’assenza nel Trattato istitutivo di una definizione di professionista o di professione. È comunque possibile ricavarne una indirettamente dalla normativa comunitaria secondaria ed in particolare dalla direttiva 2005/36/CE sul riconoscimento delle qualifiche professionali (sulla quale v. in dettaglio infra, § 4.) il cui ambito di applicazione è circoscritto «a tutti i cittadini di uno Stato membro che vogliano esercitare, come lavoratori subordinati od autonomi, compresi i liberi professionisti, una professione regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali» (art. 2.1.). Il legislatore utilizza il concetto di «professione regolamentata» definita come «attività, o insieme di attività professionali, l’accesso alle quali e il cui esercizio, o una delle cui modalità di esercizio, sono subordinati direttamente o indirettamente, in forza di norme legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di determinate qualifiche professionali» (art. 3.1., lett. a), direttiva 2005/36/CE). A tali attività sono poi assimilate le professioni esercitate «dai membri di un’associazione o di un organismo di cui all’allegato I» (nell’elenco sono compresi organismi dell’Irlanda e del Regno Unito)» le quali «hanno in particolare lo scopo di promuovere e di mantenere un livello elevato nel settore professionale in questione e a tal fine sono oggetto di un riconoscimento specifico da parte di uno Stato membro e rilasciano ai loro membri un titolo di formazione, esigono da parte loro il rispetto delle regole di condotta professionale da esse prescritte e conferiscono ai medesimi il diritto di usare un titolo o un’abbreviazione o di beneficiare di uno status corrispondente a tale titolo di formazione (art. 3.2.). Dal concetto di professione regolamentata accolto a livello comunitario scaturiscono alcune osservazioni utili al prosieguo dell’indagine.

In primo luogo la professione può essere svolta in forma sia autonoma, che subordinata. La direttiva, dunque, collega le professioni, non solo alla fattispecie dell’autonomia, ma anche a quella della subordinazione, senza però specificare i criteri per i quali una professione può ricadere nell’una o nell’altra [1].

La seconda considerazione riguarda la categoria delle «professioni liberali» che, secondo il 43° considerando della direttiva in questione, sono «quelle praticate sulla base di pertinenti qualifiche professionali in modo personale, responsabile e professionalmente indipendente da parte di coloro che forniscono servizi intellettuali e di concetto nell’interesse dei clienti e del pubblico». Le professioni liberali non trovano considerazione in quanto tali, ma rilevano, in ambito comunitario, nella misura in cui si tratta anche di professioni regolamentate e rientrano pertanto nel campo di applicazione della direttiva. Riguardo alle professioni liberali il legislatore comunitario rileva che «l’esercizio della professione negli Stati membri può essere oggetto, a norma del trattato, di specifici limiti legali sulla base della legislazione nazionale e sulle disposizioni di legge stabilite autonomamente, nell’ambito di tale contesto, dai rispettivi organismi professionali rappresentativi, salvaguardando e sviluppando la loro professionalità e la qualità del servizio e la riservatezza dei rapporti con i clienti» (43° considerando). L’inclusione dei liberi professionisti così individuati nell’ambito di applicazione della direttiva ha lo scopo dunque di «recepire normative nazionali, talvolta fra loro differenziate, le quali sono ammesse a concorrere con le regole della direttiva stessa» [2].

Dall’individuazione della categoria delle professioni regolamentate deriva, per contrapposizione, quella delle professioni non regolamentate che include, secondo l’orientamento fatto proprio dalla Corte di Giustizia, le attività le cui modalità di accesso o esercizio non sono direttamente o indirettamente disciplinate da norme di natura giuridica, cioè da disposizioni di legge, di regolamento o amministrative [3].

Infine un cenno va fatto in merito alla identificazione dell’attività dei professionisti come attività d’impresa. Per la giurisprudenza comunitaria rientra nella nozione di impresa secondo il Trattato CE «qualsiasi entità che esercita una attività economica, a prescindere dal suo stato giuridico e dalle sue modalità di finanziamento» [4]. Ciò che assume rilievo, in questa prospettiva, è l’esistenza di una attività economica ossia di una «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi in un determinato mercato» [5]. Le attività di chi esercita una professione sono «attività organizzate per la produzione di servizi, ossia per l’esecuzione di prestazioni di fare» [6]. Dunque i professionisti sono imprese [7] – e gli organi di categoria costituiscono associazioni di imprese [8] – e come tali sono assoggettati alle disposizioni di cui agli artt. 81 ss. Tratt. CE che dettano le norme fondamentali in materia di concorrenza [9]. Dell’applicazione del diritto comunitario della concorrenza ai servizi professionali si è occupata anche la Commissione europea che, in una relazione del 2004, ha rilevato una serie di possibili vincoli alla libera iniziativa economica nel settore dei servizi professionali: essi riguardano le tariffe professionali, la pubblicità, i requisiti di accesso ed i diritti esclusivi.

2. Professioni e libera circolazione nell’Unione europea

La creazione di un mercato europeo delle professioni regolamentate si basa sul riconoscimento delle due libertà fondamentali: di stabilimento e di prestazione dei servizi; esse rappresentano le «due modalità attraverso le quali un operatore del settore dei servizi può beneficiare del suo diritto di circolazione intracomunitaria» [10]. La prima trova la sua base giuridica nell’art. 43 (ora art. 49 Tfue) del Trattato istitutivo che pone il divieto di restrizioni alla libertà dei cittadini di spostarsi in uno Stato membro diverso da quello di origine al fine di svolgervi un’attività in modo stabile continuativo. Nella norma si fa riferimento all’accesso e all’esercizio di attività non salariate (che rappresentano un «universo socialmente eterogeneo e complesso» [11]) nello Stato di stabilimento, disponendo che essi debbano avvenire alle stesse condizioni applicate da quest’ultimo ai propri cittadini. All’operatività del sistema sono sottratte, ai sensi dell’art. 45 (ora art. 51 Tfue) Tratt. CE quelle attività che, nello Stato di destinazione, partecipano, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri. Il riconoscimento della libertà di stabilimento permette al professionista di uno Stato membro di esercitare in modo continuo e permanente la propria attività in un altro Stato membro, sia trasferendo il centro della stessa, sia creando un secondo domicilio professionale.

La libera prestazione di servizi è regolata invece dall’art. 49 (art. 56 Tfue) del Trattato e concerne la possibilità di un cittadino di prestare la propria attività in un altro Stato membro della Comunità, alle stesse condizioni dei cittadini ivi residenti, ma senza doversi stabilire. L’art. 50 (art. 57 Tfue) Tratt. CE annovera espressamente tra i servizi – definiti come «prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione» – le «attività delle libere professioni». Il professionista può dunque esercitare in modo temporaneo la sua attività al di fuori dello Stato di residenza alle stesse condizioni imposte ai cittadini del paese ove la prestazione è fornita.

La libertà di stabilimento e la libertà di prestazione si differenziano dunque, sotto il profilo operativo, per le diverse modalità di esercizio dell’attività economica – implicando la prima il connotato della stabilità e della permanenza dell’operatore, la seconda i caratteri della episodicità e della temporaneità –, ma sono accomunate dal postulare un divieto di discriminazione fondata sulla nazionalità.

Il Trattato comunitario impone, infatti, di applicare al cittadino-stabilito e al prestatore di servizi il principio del trattamento nazionale, ossia di assoggettarlo allo stesso trattamento applicato ai cittadini dello Stato ospitante, con gli unici limiti dovuti a motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica (art. 46 Tratt. CE che è confluito nell’art. 52 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea).

Di conseguenza, qualora nello stato ospitante non sia richiesto alcun requisito per lo svolgimento di un’attività, il cittadino di un qualsiasi altro stato membro può esercitarla liberamente, sia in modo stabile che temporaneo. Qualora invece, nello stato di destinazione l’accesso o l’esercizio dell’attività sia sottoposto a determinate condizioni, divieti od oneri, questi valgono anche per il cittadino di un altro stato membro. Le condizioni prescritte da norme nazionali possono consistere, per esempio, nel possesso di determinati titoli, di una qualifica professionale o nel superamento di un esame di Stato. Di conseguenza l’ulteriore ostacolo che si pone all’effettivo esercizio delle attività è rappresentato dalla non corrispondenza dei titoli di studio e delle qualifiche professionali conseguiti nei diversi Stati membri, ciascuno dei quali è dotato di propri sistemi di istruzione.

Tale problema è accentuato nel campo delle professioni, l’accesso alle quali è disciplinato da singole regolamentazioni nazionali che prescrivono specifici requisiti. Un professionista, in possesso di un diploma acquisito nel proprio paese di origine può quindi vedersi precluso l’accesso e l’esercizio, anche solo temporaneo, di un’attività professionale nel territorio dell’Unione europea perché sprovvisto del titolo riconosciuto dallo Stato di destinazione. Per porre rimedio a ciò, è riconosciuta la competenza dell’Unione ad emanare – in conformità alla procedura di codecisione di cui art. 251 Tratt. CE ora denominata procedura legislativa ordinaria (art. 294 Tfue) – direttive intese al reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli (v. art. 47 Tratt. CE ora art. 53 § 1 Tfue).

3. L’attuazione della libertà di circolazione dei professionisti

L’attuazione della libertà di circolazione – nella forma dello stabilimento e della prestazione di servizi – nel campo delle attività professionali si è dimostrata sin da subito non agevole. Al riguardo possono essere isolate tre fasi [13].Nella prima fase venivano in rilievo le disposizioni del Trattato istitutivo di Roma del 1957 che prevedevano la graduale soppressione delle restrizioni al diritto di stabilimento e alla libertà di prestazione nel corso di un periodo transitorio (artt. 52.1 e 59.1, versione originaria del Tratt. CE, che riportavano una clausola c.d. di roll-back, ora sostituita dal divieto di restrizioni), attraverso l’emanazione di direttive approvate in base a Programmi generali stabiliti dal Consiglio della Comunità (artt. 54 e 63 versione originaria del Tratt. CE). Tale meccanismo di liberalizzazione si componeva altresì di una clausola di stand-still, che obbligava gli Stati membri a non introdurre nuove restrizioni alle libertà considerate (v. artt. 53 e 62 Tratt. CE nella versione originaria poi soppressi). L’art. 57 del Trattato si occupava altresì del problema della uniformità dei profili professionali, disponendo che venissero adottate direttive in materia di reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli nonché per il coordinamento delle normative nazionali relative all’accesso alle attività non salariate e all’esercizio di queste. In conformità agli impegni sopra citati furono approvati, nel 1961, i Programmi generali che fissavano uno scadenziario per tappe, il raggiungimento delle quali avrebbe dovuto portare, entro il termine del 31 dicembre 1969, all’attuazione del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi. Tuttavia il processo di elaborazione della normativa comunitaria si rivelò assai complesso, sia per i limiti del procedimento decisionale originario [14] – basato sulla regola dell’unanimità –, sia per l’atteggiamento degli Stati membri che, fermi su posizioni protezionistiche verso i professionisti nazionali, si mostrarono riluttanti ad impegnarsi per la realizzazione della libertà di circolazione. Durante gli anni ’60 furono adottate solo le c.d. «direttive transitorie» (oggi non più in vigore in quanto confluite nella direttiva 1999/42/CE) per vari settori [15]. Esse si basavano sul criterio generale per cui l’ammissione di cittadini di altri paesi membri all’esercizio di una attività autonoma nello Stato di destinazione era subordinata al possesso di un’adeguata esperienza professionale nello Stato di provenienza. In quel periodo non venne però emanata alcuna direttiva di coordinamento per l’accesso alle professioni.

All’inerzia del legislatore comunitario ovviò la Corte di Giustizia che, nel 1974, si pronunciò due volte in materia di diritto di stabilimento e libera prestazione dei servizi, affermando la natura direttamente applicabile delle norme del Trattato. La prima sentenza [16] traeva spunto dalla vicenda di un cittadino olandese, il sig. Reyners, al quale era stata negata l’autorizzazione all’iscrizione all’albo degli avvocati del Belgio essendo privo della cittadinanza belga, pur avendo il diploma («docteur en droit») che in tale Stato abilitava all’esercizio della professione forense. Si trattava, dunque, di un caso di restrizione alla libertà di stabilimento fondata su motivi di nazionalità. La Corte chiarì che l’art. 52, (rinumerato, in seguito, art. 43 Tratt. CE ed oggi art. 49 Tfue) prescriveva «un obbligo di risultato preciso, il cui adempimento doveva essere facilitato, ma non condizionato, dall’attuazione di un programma di misure graduali». La mancata adozione delle direttive di attuazione non impediva dunque che al termine del periodo transitorio la disposizione dispiegasse un’efficacia diretta, prescrivendo l’obbligo del trattamento nazionale in relazione al diritto di stabilimento. Nella successiva sentenza Van Binsbergen [17] fu applicata la medesima impostazione per la libertà di prestazione di servizi, con riferimento agli artt. 59 e 60 Tratt. CE. La causa era stata intentata da un avvocato olandese residente in Belgio al quale era stato negato il diritto di patrocinio nei giudizi in Olanda per mancanza del requisito della residenza. La Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi, colse l’occasione per precisare la portata della clausola del trattamento nazionale, e sottolineare che l’applicazione dell’art. 59 (poi art. 49 Tratt. CE, ora art. 56 Tfue), era sì subordinata, durante il periodo transitorio, all’emanazione della normativa secondaria, ma una volta spirato il termine, non era più sottoposta ad alcuna condizione. Di conseguenza la norma poteva essere fatta valere dinanzi ai giudici nazionali, almeno nella parte in cui imponeva la soppressione di tutte le discriminazioni che colpivano il prestatore di un servizio a causa della sua nazionalità o della sua residenza in uno stato diverso da quello in cui il servizio stesso era fornito.

Tale giurisprudenza estensiva venne confermata anche in seguito. Nella sentenza Thieffry del 28.4.1977 la Corte di Giustizia ridimensionò nuovamente l’importanza dell’emanazione della normativa secondaria prevista dal Trattato in tema di libertà di stabilimento, precisando che, anche ove non fossero state approvate le direttive di coordinamento di cui all’art. 57 (art. 47 Tratt. CE ora art. 53 Tfue), posto che l’effettivo godimento della libertà di stabilimento poteva e doveva essere garantito dalle autorità nazionali competenti (ai sensi dell’art. 5 Tratt. CE), spettava a queste ultime garantire che leggi o prassi venissero applicate conformemente all’obiettivo fissato dal Trattato in materia.

Sulla scorta di tale pronuncia si affermò altresì l’idea di fondo – poi ripresa nelle iniziative legislative collocate tra la fine degli anni ottanta e primi anni novanta – che l’equivalenza tra il titolo di studio conseguito nel paese di origine e quello del paese ospitante fosse condizione sufficiente per l’esercizio della professione in quest’ultimo (nel caso Thieffry fu riconosciuto il diritto di un cittadino belga ad esercitare l’avvocatura in Francia in quanto in possesso di un titolo riconosciuto equipollente dall’Università di Parigi).

La realizzazione del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi per le professioni conobbe poi una seconda fase, collocabile tra il 1975 e il 1985, durante la quale furono approvate una serie di direttive settoriali aventi ad oggetto singole professioni, in particolare quelle mediche e paramediche [18]. L’obiettivo perseguito dal legislatore comunitario, in questo caso, era di garantire il reciproco riconoscimento dei diplomi e delle qualificazioni professionali attraverso una armonizzazione preventiva delle formazioni professionali nei vari ordinamenti interni. A tal fine per ogni professione fu adottata una coppia di direttive: una di coordinamento, idonea ad individuare le condizioni di accesso ed esercizio della professione e le modalità di formazione, compresi i curricula universitari; l’altra relativa al riconoscimento dei diplomi conseguiti sulla base dei requisiti formativi minimi comuni precedentemente armonizzati.

Il tentativo di definire per tutti gli stati membri uno standard comune di formazione professionale, cui collegare il riconoscimento automatico del diploma ai fini professionali, si rivelò però, estremamente difficile, laborioso e di incerto esito [19]. Ciò sia per le perplessità mostrate dagli Stati membri ad un intervento comunitario avente riflessi sull’autonomia dei sistemi nazionali scolastici ed universitari, sia per le difficoltà riscontrate nell’uniformare percorsi formativi spesso estremamente diversificati.

Questo approccio, quindi, trovò compiuta realizzazione soltanto con riferimento alle professioni mediche e paramediche – i cui piani di formazione presentavano sostanziali analogie nei singoli Stati membri –, mentre per le altre professioni il percorso fu più travagliato.

Per quanto riguarda la professione forense, l’impossibilità di coordinare i curricula formativi – in quanto correlati allo studio dei singoli diritti nazionali – spinse il legislatore comunitario a limitare il suo intervento al settore della libera prestazione dei servizi legali, ove fu adottata la direttiva 77/249/CEE (22.3.1977) (sulla quale v. infra, § 5.1).

Per gli ingegneri non venne realizzato alcun accordo.

Per gli architetti, infine, dopo diciotto anni di lavori, fu adottata solo la direttiva sul riconoscimento reciproco dei diplomi [20]. La Comunità, in questo caso, si astenne dal dettare norme di coordinamento delle disposizioni concernenti la formazione professionale, limitandosi a fornire indicazioni di carattere generale sul tipo di conoscenze che dovevano essere acquisite nel corso degli studi.

La terza fase del processo di liberalizzazione fu contemporanea alle iniziative politiche della metà degli anni ’80 di rilancio del processo di integrazione europea. L’interesse a superare il metodo c.d «settoriale» proprio della fase precedente, si manifestò sin dal Consiglio europeo di Fontainebleau del 1984, ma fu solo dopo il Consiglio di Milano del giugno del 1985, dove venne presentato il Libro Bianco per la realizzazione del mercato interno, che la Commissione formulò una proposta concreta su un nuovo sistema di riconoscimento dei titoli.

L’approccio seguito fu di abbandonare il tradizionale sistema basato sul riconoscimento del diploma conseguito all’esito di un processo formativo armonizzato, a favore di uno imperniato sul reciproco riconoscimento tout court del diploma abilitante l’esercizio di un’attività professionale regolamentata. Anziché armonizzare il contenuto delle formazioni, furono armonizzate le procedure di attuazione del riconoscimento di titoli corrispondenti a processi formativi autonomamente determinati dai singoli Stati membri.

Furono dunque emanate due direttive: la 89/48/CEE (21.12.1988) [21], che prevedeva un sistema generale di riconoscimento di diplomi di insegnamento superiore conseguiti all’esito di corsi di formazione professionale di una durata minima di tre anni; e la 92/51/CEE (18.6.1992) che includeva un secondo sistema generale di riconoscimento per formazioni professionali di durata inferiore al triennio [22]. Fondamento del sistema generale era il principio del mutuo riconoscimento, già elaborato dalla Corte di Giustizia nella nota sentenza Cassis de Dijon in materia di libera circolazione delle merci [23]. Il principio affermato fu poi esteso dalle merci ai servizi e divenne il meccanismo fondamentale per la realizzazione del mercato interno.

Secondo l’impostazione seguita dal legislatore comunitario nelle due direttive sopra citate, gli Stati membri dovevano considerare idoneo ad esercitare una professione sul proprio territorio colui che aveva l’abilitazione nel paese di origine, riconoscendogli titoli e diplomi professionali, sul presupposto della fiducia sull’idoneità dei sistemi nazionali di formazione (v. art. 3, direttiva 89/48/CEE).

Il reciproco riconoscimento dei diplomi non era, in ogni caso, sempre automatico. A fronte dell’istanza del soggetto interessato all’accesso e/o all’esercizio di una professione regolamentata, lo Stato membro ospitante era tenuto a prendere in considerazione le qualifiche acquisite dal richiedente in un altro Stato membro ed esaminare se esse corrispondevano a quelle prescritte dalle disposizioni nazionali. Laddove tale corrispondenza fosse stata solo parziale, lo Stato di accoglienza poteva adottare «misure di compensazione», quali tirocinio di adattamento o prova attitudinale, o richiedere una esperienza professionale preliminare.

La necessità di operare una comparazione tra le competenze attestate dal richiedente e le conoscenze e qualifiche richieste dalle norme nazionali, peraltro, si era già affermata prima dell’approvazione del sistema generale di riconoscimento, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare nelle sentenze Heylens [24] e Vlassopoulou [25]. In quest’ultima decisione i giudici fecero discendere direttamente dal Trattato comunitario (art. 52 Tratt. CE) l’obbligo per gli Stati membri ospitanti di tener conto delle qualifiche già acquisite in un altro Stato membro; l’obbligo assumeva dunque, portata generale e trovava applicazione per tutte quelle professioni che non rientravano nel quadro regolamentare né delle direttive relative al sistema generale di riconoscimento, né di quelle settoriali.

Alla fine degli anni ’90 poi, esigenze di coordinamento e di semplificazione indussero il legislatore comunitario ad arricchire il sistema di un terzo meccanismo di riconoscimento delle qualifiche per attività professionali nei settori del commercio, dell’industria e dell’artigianato (direttiva 99/42/CE (7.6.1999)). Esso si riferiva ad attività non contemplate dalle direttive principali ed oggetto delle direttive «transitorie» adottate tra il 1963 e il 1982 (v. supra).

Il sistema generale di reciproco riconoscimento dei titoli professionali con meccanismi di adattamento, fondato sulle direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE, si è rivelato però, in concreto, meno “rivoluzionario” e generale del previsto [26].

Da un lato, infatti, non ha contribuito alla realizzazione di analoghe iniziative di armonizzazione minima dei sistemi nazionali di istruzione secondaria e post secondaria. Dall’altro è apparso sin da subito poco “generale”, non essendo applicabile a professioni già disciplinate da direttive specifiche, come nel caso degli architetti e degli avvocati.

L’obiettivo comunitario di eliminare le barriere alla circolazione delle professioni attraverso l’adozione del sistema generale di riconoscimento dei diplomi è stato, infine, vanificato dagli stessi Stati membri che, sensibili a mantenere un controllo sul meccanismo di accesso alle professioni, hanno di fatto ostacolato il funzionamento del sistema. I legislatori nazionali, infatti, nel recepire le direttive in esame, hanno non di rado posto vincoli eccessivi al riconoscimento dei titoli, come la predisposizione di «misure compensative largamente sovrabbondanti [27] ed oscure» [28]. Sono stati, inoltre, considerati troppo restrittivi i requisiti richiesti ai fini del riconoscimento del titolo professionale conseguito in un altro Stato membro [29].

4. La direttiva 2005/36/CE sul riconoscimento delle qualifiche professionali

L’esigenza di estendere la possibilità di esercitare l’attività professionale con il titolo professionale originario – facilitando in questo modo la libera circolazione delle persone qualificate nel territorio comunitario – nonché di semplificare il sistema – caratterizzato da una copiosa produzione normativa – hanno contribuito ad un ripensamento dei meccanismi per il riconoscimento dei titoli.

Il percorso di revisione ha preso le mosse dal Consiglio europeo di Stoccolma del marzo 2001, ove è stato dato specifico mandato alla Commissione europea di intraprendere le iniziative necessarie per l’instaurazione di «un sistema più uniforme, trasparente e flessibile di riconoscimento delle qualifiche professionali» (punto 15, Conclusioni del Consiglio europeo di Stoccolma). A tal fine la Commissione europea ha elaborato, nel marzo del 2002, una proposta di direttiva, che è stata adottata, dopo oltre tre anni di lavori, il 7 settembre 2005 (direttiva 2005/36/CE) [30], ed il cui termine di recepimento negli ordinamenti interni è scaduto il 20 ottobre 2007.

La direttiva si inserisce nel quadro del processo di consolidamento legislativo e perciò accorpa ed armonizza in un unico testo le tre direttive generali 89/48/CEE, 92/51/CEE e 99/42/CE e le dodici direttive settoriali già esistenti in materia di professioni (sulle quali v. supra, nota n. 18).

La direttiva unica, pur avendo valenza generale, non si applica, però, ai sensi dell’art. 2.3., a quelle categorie professionali per le quali vige un regime speciale di riconoscimento richiamato da altre disposizioni giuridiche specifiche. Si tratta dei notai [31], degli avvocati – destinatari delle direttive relative alla prestazione di servizi ed al diritto di stabilimento (v. infra § 5.) –, dei revisori dei conti [32], degli intermediari assicurativi [33] e dei professionisti nel settore dei trasporti [34].

La direttiva 2005/36/CE si propone di raggruppare in un unico testo legislativo le direttive generali e settoriali, nonché di fissare le regole con cui uno Stato membro, che sul proprio territorio subordina l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio al possesso di determinate qualifiche professionali, riconosce per l’accesso alla professione e per il suo esercizio, le qualifiche professionali acquisite in Stati diversi dell’Unione e che permettono al titolare di esercitarvi la stessa professione.

L’ambito di applicazione dello strumento normativo riguarda esclusivamente i cittadini comunitari che vogliano esercitare, come lavoratori subordinati o autonomi, compresi i liberi professionisti, una professione regolamentata in uno stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali. La nozione di professione regolamentata fornita dal legislatore comunitario è ampia – intendendo come tale «ogni attività, o insieme di attività professionali, l’accesso alle quali e il cui esercizio, o una delle cui modalità di esercizio, sono subordinati direttamente o indirettamente, in forza di norme legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di determinate qualifiche professionali» (art. 3.1., lett. a)) – ed include quella nozione di «attività professionale regolamentata» contenuta nel previgente sistema generale.

Dall’applicazione della disciplina comunitaria in esame sono escluse, dal punto di vista materiale, le professioni non regolamentate e, dal punto di vista soggettivo, i cittadini non comunitari, anche se stabiliti in un paese dell’Unione europea. Sotto quest’ultimo profilo, il legislatore comunitario non vieta però agli Stati membri di riconoscere, secondo la propria regolamentazione, qualifiche professionali acquisite da un cittadino di un paese terzo al di fuori del territorio dell’Unione europea (10° considerando).

L’esclusione dal campo di applicazione della direttiva dei cittadini extracomunitari è opinabile, poiché ad essi, qualora abbiano soggiornato legalmente e ininterrottamente per cinque anni nel territorio dell’Unione europea, la direttiva 2003/109/CE (25.11.2003) relativa allo status di cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, garantisce parità di trattamento con i cittadini comunitari per quanto riguarda il riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli professionali secondo le procedure nazionali applicabili (art. 11.1., lett. c)) [35].

Dal punto di vista sostanziale, la direttiva 2005/36/CE non supera né stravolge il regime precedente [36], ma codifica alcuni principi emersi nell’ambito della giurisprudenza comunitaria. Permane dunque l’obbligo, per lo Stato di accoglienza, di prendere in considerazione le qualificazioni – compresi i titoli universitari [37] – ottenute dal soggetto in un altro Stato membro, al fine di valutarne l’eventuale equivalenza. Viene altresì ribadito che qualora la corrispondenza sia solo parziale, lo Stato potrà esigere che l’interessato dimostri di aver conseguito le conoscenze e le abilità mancanti attraverso un tirocinio od un esame (v. sentenze Heylens, Vlassopoulou, Morgenbesser, cit.).

Rimane infine immutato il principio di base per cui il riconoscimento delle qualifiche permette al beneficiario di accedere, nello stato membro ospitante, alla medesima professione per la quale è qualificato nel paese di origine, e di esercitarla alla medesime condizioni dei cittadini dello stato membro ospitante (art. 4.1.).

La novità più significativa contenuta nel testo della direttiva riguarda la previsione di una disciplina generale ad hoc per la libera prestazione di servizi professionali che abbia luogo in uno stato membro diverso da quello di provenienza del prestatore (titolo II, artt. 5-9).

Il legislatore identifica la libera prestazione di servizi sulla scorta di criteri già individuati dalla Corte di Giustizia: durata, frequenza, periodicità e continuità della prestazione esercitata in via temporanea [38]. Essa si distingue quindi dalla «libertà di insediamento», la cui disciplina è contenuta nel titolo III della direttiva. Quest’ultimo è suddiviso in tre capi che richiamano i regimi di riconoscimento già esistenti: nel primo vengono rielaborati i principi e le garanzie già contenuti nelle direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE (artt. 10-15); il secondo riprende il sistema già adottato dalla direttiva 99/42/CE (artt. 16-20); il capo III recepisce, con lievi modifiche, i meccanismi di riconoscimento delle sette professioni coperte dalle direttive settoriali (artt. 21-49).

È opportuno infine precisare che, per quanto concerne la prestazione di servizi, l’applicazione della direttiva 2005/36/CE non è compromessa dalla direttiva 2006/123/CE del 12.12.2006 relativa ai servizi nel mercato interno, la quale traccia un quadro giuridico generale volto ad agevolare la libertà di stabilimento dei prestatori di servizi in altri Stati membri e la libera circolazione dei servizi tra Stati membri. La direttiva c.d. “servizi”, infatti, si riferisce a questioni diverse – quali l’assicurazione di responsabilità professionale, le comunicazioni commerciali, le attività multidisciplinari e la semplificazione amministrativa (v. 31° considerando della direttiva 2006/123) – da quelle oggetto della direttiva sulle qualifiche professionali

Inoltre è previsto che le disposizioni della direttiva “servizi” cedano rispetto a quelle confliggenti contenute nella direttiva sulle qualifiche che regolano aspetti peculiari dell’accesso ai servizi per professioni specifiche (v. art. 3, direttiva 2006/123).

Per quanto concerne infine, la prestazione di servizi transfrontalieri a titolo temporaneo, l’art. 17.6 della direttiva “servizi” esclude le materie disciplinate dal titolo II della direttiva 2005/36/CE dall’applicazione della disposizione sulla libera prestazione di servizi (art. 16) la quale, pertanto non incide su nessuna delle misure applicabili a norma della direttiva 2005/36/CE nello Stato membro in cui viene fornito un servizio.

4.1. Il regime del riconoscimento per la libera prestazione dei servizi

La prima ipotesi di riconoscimento che la direttiva 2005/36/CE prende in considerazione è quella relativa al professionista che presta occasionalmente servizi, ai sensi dell’art. 49 Tratt. CE (art. 56 Tfue), in uno stato diverso da quello di origine. Al riguardo la disciplina comunitaria prescrive che il prestatore possa esercitare la professione nello stato ospitante con il proprio titolo di origine e senza dover chiedere il riconoscimento. Ciò è possibile quando la prestazione ha carattere temporaneo ed occasionale ed il beneficiario è legalmente stabilito in uno stato membro o ha esercitato in esso la professione per almeno due anni nel corso dei dieci anni che precedono la prestazione di servizi (questa ultima ipotesi si applica solo se la professione non è regolamentata nello stato di stabilimento).

Tale regime prevede dunque l’applicazione del c.d. principio del paese di origine, che trova però due temperamenti. Il primo attiene alla valutazione dell’attività come temporanea ed occasionale, che è effettuata dal paese ospitante, caso per caso, «in funzione della durata della prestazione stessa, della sua frequenza, della sua periodicità e della sua continuità» (art. 5.2., II parte). Il secondo limite riguarda il rispetto, da parte del prestatore, delle norme «di carattere professionale, legale o amministrativo, direttamente connesse alle qualifiche professionali, quali la definizione della professione, l’uso dei titoli e gravi errori professionali connessi direttamente e specificamente alla tutela e sicurezza dei consumatori, nonché le disposizioni disciplinari applicabili nello Stato membro ospitante ai professionisti che, ivi, esercitano la stessa professione» (art. 5.3.).

Nonostante il professionista sia sottoposto alle norme deontologiche dello Stato ospitante, egli non è tenuto al rispetto dei requisiti imposti ai professionisti stabiliti sul territorio riguardanti l’autorizzazione, l’iscrizione o l’adesione a un’organizzazione o a un organismo professionale. Questa deroga potrebbe non facilitare l’applicazione al professionista dei provvedimenti disciplinari di cui all’art. 5.3. della direttiva e a tal proposito è previsto che gli Stati membri possano introdurre, per il prestatore, un’iscrizione temporanea e automatica o un’adesione pro forma all’organizzazione o organismo professionale, purché tale iscrizione o adesione non ritardino né complichino in alcun modo la prestazione di servizi e non comportino oneri supplementari per il prestatore di servizi (egli è altresì dispensato dall’iscrizione, presso lo Stato di accoglienza, ad un ente di previdenza sociale di diritto pubblico).

L’autorità dello Stato membro ospitante può esercitare altre forme di controllo sullo svolgimento della prestazione di servizi da parte del professionista europeo. Può esigere da quest’ultimo, alla sua prima prestazione, una dichiarazione scritta (non si tratta, come è ovvio, di una domanda di autorizzazione all’esercizio della professione) che riporti alcune informazioni, per esempio, sulla esistenza di una copertura assicurativa o di analoghi mezzi di protezione personale o collettiva per la responsabilità professionale, nonché, allegati ad essa, un certo numero di documenti attestanti la sussistenza dei requisiti per l’esercizio della professione (come la prova dello stato di cittadinanza, un attestato di domicilio legale, una prova delle qualifiche professionali, sul p.to v. in dettaglio l’art. 7.2.).

Inoltre lo Stato membro ospitante può – qualora si tratti di garantire un elevato grado di tutela della salute e dei consumatori [39] - procedere ad una verifica preventiva delle qualifiche professionali in possesso del prestatore, al fine di evitare danni gravi per la salute o la sicurezza del destinatario del servizio (art. 7.4.). Tale verifica può concludersi con la necessità di sottoporre il prestatore ad una prova attitudinale, qualora vi siano differenze sostanziali tra le qualifiche professionali del prestatore e la formazione richiesta nello Stato membro ospitante, e nella misura in cui tale differenza sia ovviamente tale da nuocere alla pubblica sicurezza o alla sanità pubblica (in questo caso qualora le qualifiche siano state verificate, il prestatore ha la possibilità di effettuare la prestazione di servizi avvalendosi del titolo professionale dello Stato membro ospitante).

Infine, per garantire trasparenza e sicurezza al servizio fornito dal prestatore nello Stato ospitante, è previsto che quest’ultimo possa attivarsi per ottenere dalle autorità competenti dello Stato membro di stabilimento del professionista, una serie di informazioni circa la legalità dello stabilimento e la buona condotta del prestatore nonché l’assenza di sanzioni disciplinari o penali di carattere professionale.

La medesima esigenza sottende alla previsione per cui il prestatore – nel caso in cui la prestazione venga effettuata con il titolo professionale dello Stato membro di residenza o con il proprio titolo di formazione e qualora le autorità competenti del paese ospitante lo richiedano – deve fornire al destinatario del servizio particolari informazioni quali le iscrizioni a determinati registri pubblici, le garanzie relative alla partita I.v.a., le prove di qualsiasi copertura assicurativa o analoghi mezzi di tutela personale o collettiva per la responsabilità professionale (art. 9, direttiva 2005/36/CE).

4.2 Segue. E per la libertà di stabilimento

Il titolo III della direttiva 2005/36/CE si riferisce alla libertà di stabilimento già sancita dall’art. 47 Tratt. CE (art. 53 Tfue) e precisa le condizioni alle quali è soggetto il riconoscimento delle qualifiche del professionista che si sposta per esercitare la sua attività in uno Stato membro diverso da quello ove ha acquisito il titolo.

La direttiva prevede tre regimi di riconoscimento delle qualifiche. Per le professioni sanitarie [40] e di architetto [41], il riconoscimento avviene in modo automatico, in base al coordinamento delle condizioni minime di formazione (art. 21), secondo un meccanismo già sperimentato nelle dodici direttive settoriali, i cui contenuti sono confluiti nella direttiva in esame.

Per le qualifiche connesse ad attività industriali, commerciali ed artigianali (il cui elenco completo è riportato nell’allegato IV della direttiva) si fa ricorso allo schema già proposto nella direttiva 1999/42/CE, che ha introdotto il riconoscimento in base al parametro dell’effettiva esperienza professionale maturata dal migrante nel paese di origine. Vengono così individuati, distinti per gruppi di attività (artt. 17-19), i periodi di esercizio della professione – che vanno dai tre ai sei anni – necessari ai fini dell’ottenimento della qualifica.

Per le professioni che non beneficiano dei regimi appena descritti, il legislatore comunitario – ispirandosi al meccanismo delle direttive generali n. 89/48/CEE e 92/51/CEE – configura un sistema che riconosce qualsiasi titolo di studio in base alla durata dello stesso.

La direttiva individua cinque livelli di qualifiche professionali, costruiti in base alla durata della formazione ricevuta nel paese di origine ed associati ad un titolo. Essi corrispondono ad un attestato di competenza, un certificato di studi secondari, un diploma universitario della durata di almeno un anno, oppure della durata minima di tre anni, o di almeno quattro anni.

Compete poi all’autorità competente dello Stato membro ospitante, nel quale l’accesso ad una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, concedere il riconoscimento ai lavoratori comunitari in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione prescritto per accedere alla stessa professione o esercitarla sul territorio di un altro Stato membro. Tali titoli ed attestati devono essere rilasciati da un’autorità competente e corrispondere ad un livello di qualifica, tra i cinque richiamati, almeno equivalente a quello immediatamente inferiore a quello richiesto nello Stato che accoglierà il professionista.

La direttiva non impone, dunque, a quest’ultimo di possedere la medesima qualifica richiesta per l’esercizio della professione nello Stato di destinazione [42].

Qualora tuttavia, nello Stato di origine, l’accesso ad una professione non sia subordinato al possesso di determinate qualifiche professionali, il lavoratore, per poter accedere ed esercitare la professione in un altro Stato membro dovrà dimostrare di possedere, oltre al titolo di formazione, due anni di esperienza nel corso dei precedenti dieci (art. 13 della direttiva)

La procedura di esame della richiesta di autorizzazione per l’esercizio di una professione regolamentata va conclusa, secondo le indicazioni della direttiva, entro tre mesi dalla data di presentazione della documentazione completa da parte dell’interessato (art. 51.2.) e con decisione adeguatamente motivata dell’autorità competente dello Stato di accoglienza.

Il meccanismo del pieno riconoscimento in uno Stato membro della qualifica ottenuta in un altro Stato membro conosce però due temperamenti.

Il primo mira a contenere il fenomeno del c.d. qualification shopping, ossia a limitare la possibilità, per il titolare di una qualifica professionale conseguita in uno Stato membro, di ottenere il riconoscimento della stessa, attraverso il sistema previsto dalla direttiva, nello Stato membro di origine (al fine di poter vantare diritti diversi da quelli conferiti grazie alla qualifica professionale ottenuta in tale Stato). Il 12° considerando della direttiva unica prevede, infatti, che il professionista potrà ottenere nel paese di origine il riconoscimento della qualifica professionale acquisita altrove solo se ha stabilmente risieduto in altro Stato membro, avendovi maturato almeno una parte della formazione, della competenza o dell’esperienza professionale.

Il secondo limite al principio del riconoscimento reciproco dei titoli di formazione attiene alla possibilità per lo Stato membro ospitante di introdurre misure compensative (art. 14). Il ricorso a provvedimenti di adattamento può avvenire in tre casi: qualora si riscontri un deficit fra la formazione ricevuta dal richiedente e quella richiesta nello Stato membro di accoglienza sotto il profilo della durata (se è inferiore di almeno un anno, art. 14.1., lett. a)) o dei contenuti (se la formazione ricevuta riguarda materie sostanzialmente diverse, art. 14.1., lett. b)), oppure nel caso in cui la professione regolamentata nello Stato membro ospitante includa una o più attività professionali regolamentate, mancanti nella corrispondente professione dello Stato membro d’origine del richiedente (art. 14.1., lett. c)). Le misure di compensazione consistono in un tirocinio di adattamento non superiore a tre anni o in una prova attitudinale.

Per tirocinio di adattamento la direttiva intende l’«esercizio di una professione regolamentata nello Stato membro ospitante sotto la responsabilità di un professionista qualificato accompagnato eventualmente da una formazione complementare» (art. 3.1., lett. g)), le cui modalità di attuazione nonché di valutazione sono affidate alle competenti autorità dello Stato membro ospitante.

La prova attitudinale consiste invece, in un controllo riguardante esclusivamente le conoscenze professionali del richiedente, compiuto dalle autorità competenti dello Stato membro ospitante allo scopo di valutare l’idoneità del richiedente ad esercitare in tale Stato una professione regolamentata (art. 2.1., lett. h)). Il controllo delle conoscenze del professionista deve vertere su materie scelte nell’ambito di un elenco predisposto dall’autorità competente, che include, come è ovvio, materie che non sono contemplate dal titolo di formazione del richiedente e la cui conoscenza è condizione essenziale per poter esercitare la professione nello Stato membro ospitante. La prova può altresì comprendere la conoscenza della deontologia applicabile alle attività interessate nello Stato membro ospitante.

Il diritto di scelta tra tirocinio e prova attitudinale è lasciato al richiedente, salvo che non si tratti di professioni il cui esercizio richiede una conoscenza precisa del diritto nazionale e per le quali la prestazione di consulenza e/o assistenza in materia di diritto nazionale costituisce un elemento essenziale e costante dell’attività professionale, poiché in tal caso lo Stato membro ospitante può sottrarre al richiedente il potere di scelta.

Tale eccezione verrà opposta alle professioni che includono competenze giuridiche (avvocati, dottori commercialisti, consulenti), per le quali risulterà dunque più difficoltoso il pieno riconoscimento dei titoli professionali.

In via generale si può affermare che la previsione di misure compensative a cui subordinare talora il riconoscimento della qualifica professionale, appare poco in linea con l’obiettivo del legislatore comunitario di favorire la mobilità trasfrontaliera dei professionisti nel contesto europeo. Per questo motivo è stato introdotto, nel sistema della direttiva del 2005, un metodo alternativo che esime i professionisti dalla compensazione, basato sulla definizione, a livello europeo, di «piattaforme comuni», adottate con provvedimento della Commissione. Si tratta di insiemi di criteri caratterizzanti le qualifiche professionali e idonei a colmare le differenze sostanziali individuate tra i requisiti in materia di formazione esistenti nei vari Stati membri per una determinata professione. Qualora le qualifiche professionali del richiedente rispondano ai criteri di cui sopra – che potrebbero, ad esempio, includere una formazione complementare, un tirocinio di adattamento, una prova attitudinale o un livello minimo prescritto di pratica professionale, o una combinazione degli stessi (v. 16° considerando) – lo Stato membro ospitante lo dispensa dall’applicazione dei provvedimenti di compensazione.

È significativo che le piattaforme possano essere sottoposte alla Commissione non solo dagli Stati membri, ma anche dalle associazioni o organismi professionali rappresentativi livello nazionale ed europeo. Tuttavia non ci si può esimere dal rilevare che il coinvolgimento delle associazioni professionali [43] nella definizione delle piattaforme comuni, idonee ad agevolare la procedura di riconoscimento, potrebbe rivelarsi meno conveniente del previsto, dati gli atteggiamenti protezionistici che da sempre gli ordini mostrano verso l’apertura dei mercati alla libera circolazione delle professioni.

Infine la direttiva 2005/36/CE incentiva la formazione professionale continua, necessaria per alcune professioni (39° considerando), lasciandone comunque la disciplina ai singoli Stati membri.

4.3. Il recepimento della direttiva nell’ordinamento italiano: il d.lgs. 9.11.2007, n. 206

La direttiva sul riconoscimento delle qualifiche professionali ha ricevuto attuazione nell’ordinamento italiano alla fine del 2007 attraverso il d.lgs. n. 206/2007, il quale ha abrogato il d.lgs. 27.1.1992, n. 115 [44], il d.lgs. 2.5.1994, n. 319 [45] e il d.lgs. 20.9.2002, n. 229, che avevano recepito rispettivamente, le direttive 89/48/CEE, 92/51/CEE e 99/42/CEE.

Il decreto, come la direttiva, contiene la disciplina relativa al riconoscimento delle qualifiche per lo stabilimento in Italia dei cittadini comunitari in possesso di titoli professionali che li abilitano, nello Stato di origine, all’esercizio della professione, nonché il regime per l’espletamento della libera prestazione di servizi.

Ai sensi dell’art. 1 il decreto si applica alle professioni regolamentate, ad esclusione di quelle il cui svolgimento sia riservato dalla legge a professionisti che partecipino sia pure occasionalmente dell’esercizio di pubblici poteri; in particolare il decreto non si applica alle attività riservate alla professione notarile [46]. Attraverso il riconoscimento, il cittadino comunitario, se in possesso dei requisiti specificatamente previsti, può dunque accedere in Italia alla professione per la quale è qualificato nel paese di origine ed esercitarla alle stesse condizioni previste dall’ordinamento italiano.

Competenti a ricevere le domande di riconoscimento e a prendere le decisioni sono le autorità indicate nell’art. 5 tra le quali figurano alcuni Dipartimenti incardinati presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Politiche giovanili e Turismo) e i Ministeri competenti per materia (ad es. il Ministero della Salute per le professioni sanitarie; il Ministero dell’Università per la professione di architetto).

Quanto al regime della prestazione di servizi temporanea ed occasionale, il legislatore italiano conferma la possibilità che possa essere svolta da un professionista legalmente stabilito in un altro Stato membro. Questi però, deve fornire alle autorità competenti, all’atto della prima prestazione, una dichiarazione scritta, che ha validità annuale, contenente informazioni sulla prestazione di servizi che intende svolgere e la copertura assicurativa. Nel caso di professioni regolamentate aventi ripercussioni in materia di pubblica sicurezza o di sanità pubblica è previsto che le medesime autorità possano procedere, all’atto della prima prestazione, ad una verifica delle qualifiche professionali del prestatore, nonché richiedere il superamento di una specifica prova attitudinale qualora vengano riscontrate differenze sostanziali tra la qualifica posseduta dal professionista e la formazione richiesta dalle norme italiane.

Il decreto dà attuazione alla direttiva anche sotto il profilo del regime della libertà di stabilimento. Qui giova sottolineare che lo Stato italiano ha optato per subordinare il riconoscimento delle qualifiche per l’accesso alle professioni di avvocato, dottore commercialista, ragioniere e perito commerciale, consulente per la proprietà industriale, consulente del lavoro, attuario e revisore contabile, di maestro di sci e di guida alpina, al superamento di una prova attitudinale (art. 22, d.lgs. n. 206/2007).

Peculiare, infine, il 3° c. dell’art. 26 che elenca gli indici necessari a valutare la rappresentatività a livello nazionale delle associazioni di categoria delle professioni non regolamentate che sono consultate – insieme agli ordini, collegi o albi rappresentativi delle professioni regolamentate – a fini dell’elaborazione delle piattaforme comuni.

5. La professione forense e la libera circolazione degli avvocati

Il sensibile aumento della domanda di servizi legali transnazionali ed il conseguente allargamento del mercato interno dei servizi e del relativo bacino di utenza hanno determinato la necessità di procedere, a livello comunitario e dei singoli ordinamenti nazionali, ad un ripensamento della figura dell’avvocato e della professione forense in genere. La liberalizzazione comunitaria di questa categoria si è dimostrata, però, sin dall’inizio, di difficile attuazione ed ha conosciuto un percorso non scevro da incertezze ed ostacoli. Ciò in ragione delle peculiarità che connotano la professione forense rispetto alle altre professioni liberali sotto il profilo, per esempio, dei contenuti.

Sin dalla formazione accademica l’Avvocatura è strettamente connessa alle esperienze di diritto positivo dei singoli Stati membri e quindi radicata nei rispettivi sistemi giuridici nazionali, tra loro spesso profondamente differenti (si ricorda, a titolo esemplificativo, che nella Comunità sono compresenti ordinamenti di civil law e common law). Questa evidenza ha reso impossibile al legislatore comunitario di seguire, per la professione forense, un approccio analogo a quello attuato per le professioni mediche e paramediche, la cui prima fase di liberalizzazione è avvenuta attraverso una armonizzazione degli standards di formazione (v. supra, § 3.). Anche le differenze sul piano professionale relative ai requisiti di accesso e di esercizio della professione, alle attività che la caratterizzano nonché alla organizzazione degli ordini professionali, non hanno facilitato un intervento del legislatore comunitario [47].

Questo contesto ha indotto il legislatore comunitario a procedere in modo cauto, liberalizzando, in un primo momento, attraverso la direttiva 77/249/CEE, lo svolgimento della prestazione di servizi dell’avvocato europeo, la quale presenta un «minor impatto socio-economico» [48], dal punto di vista della concorrenza, con i professionisti nazionali. In un secondo momento è stata introdotta la disciplina relativa al diritto di stabilimento dell’avvocato.

Nella liberalizzazione della professione forense – che peraltro ha preceduto quelle delle altre professioni liberali – ha svolto un ruolo importante la Corte di Giustizia. La libertà di stabilimento e di prestazione di servizi sono state, infatti, in un primo tempo, applicate grazie alla giurisprudenza comunitaria che ha riconosciuto effetto diretto agli artt. 43 e 49 Tratt. CE (ora artt. 49 e 56 Tfue) – con conseguente superamento delle barriere discriminatorie fondate sulla cittadinanza – proprio in relazione a professionisti appartenenti al ceto forense che, in possesso dei requisiti di formazione professionale prescritti dallo Stato ospitante, intendevano esercitarvi la professione in forma stabile o temporanea.

Il problema della libertà di stabilimento si è presentato nel citato caso Reyners [49] (v. supra, § 3.) conclusosi con l’affermazione della diretta applicabilità dell’art. 52 (poi art. 43) del Trattato e dunque con il riconoscimento del diritto di stabilimento quale diritto immediatamente azionabile in giudizio, nonostante la mancata adozione della normativa comunitaria secondaria [50].

L’interpretazione della disciplina relativa al diritto di stabilimento fornita dalla Corte di Giustizia è stata riproposta per la libera prestazione di servizi nella sentenza Van Bisbergen [51] (v. supra, § 3.) ove è stata riconosciuta efficacia diretta agli artt. 59 § 1 e 60 § 3, del Trattato di Roma del 1957. Nel caso in questione i giudici comunitari presero atto che le due norme imponevano, tra l’altro, la soppressione della condizione di residenza [52], e precisarono, con riferimento alla professione di avvocato, che il buon funzionamento della giustizia poteva essere garantito con obblighi meno pesanti dell’imposizione della residenza nello Stato ove veniva resa la prestazione, ad esempio prescrivendo l’elezione di un domicilio ove potessero essere indirizzate le comunicazioni giudiziarie. Secondo la Corte però, non si potevano considerare incompatibili col trattato i requisiti specifici che il prestatore doveva possedere in forza di norme sull’esercizio della sua professione – norme in tema d’organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità –, giustificate dal pubblico interesse, ed obbligatorie nei confronti di chiunque risiedeva nello stato ove la prestazione era effettuata.

La giurisprudenza comunitaria in tema di esercizio della professione forense in Europa non ha mancato di fornire utili spunti per l’interpretazione della disciplina della libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi. La sentenza Vlassopoulou [53] – vertente sull’accesso alla professione di avvocato in Germania di una cittadina greca già ammessa ad esercitare la professione nel paese di origine ed in possesso della laurea di dottore in legge acquisita in una Università tedesca – rientra nell’insieme delle pronunce sull’eliminazione delle restrizioni relative al reciproco riconoscimento dei diplomi. In essa i giudici comunitari, prendendo atto che requisiti nazionali di qualificazione possono di fatto ostacolare l’esercizio, da parte di cittadini di altri Stati membri, del diritto di stabilimento sancito dall’art. 52 Tce, hanno imposto allo Stato in cui il richiedente intende stabilirsi di effettuare un esame comparativo tra la formazione attestata dai diplomi, certificati e altri titoli che l’interessato ha acquisito per esercitare la professione in un altro Stato membro e quella richiesta dallo Stato ospitante. Qualora vi sia una corrispondenza solo parziale, lo Stato ospitante ha il diritto a chiedere che l’avvocato dimostri di aver acquisito le conoscenze e le qualifiche mancanti (p.to 19 della sentenza).

Oggetto della sentenza Klopp [54], invece, è il diritto dell’avvocato che intenda stabilirsi in un altro Stato della Comunità, di avere più centri di attività oltre a quello principale. La pronuncia si riferisce al caso dell’avvocato Klopp cui l’ordine degli avvocati di Parigi ha rifiutato l’iscrizione all’albo pur in possesso di un titolo riconosciuto in Francia, in quanto esso intendeva aprire una sede in Francia, pur mantenendo l’iscrizione e lo studio in Germania. La Corte di Giustizia ha chiaramente affermato che nulla osta a che un soggetto possa essere stabilito contemporaneamente in più Stati membri della Comunità. Ciò in base a due motivazioni: in primo luogo un’interpretazione restrittiva dell’art. 52.2 Tratt. CE (poi art. 43), per cui una disciplina nazionale che impone ad un avvocato di avere un solo stabilimento nell’intero territorio della comunità, avrebbe la conseguenza che «l’avvocato, stabilitosi in un determinato stato membro, non potrebbe più avvalersi delle libertà del trattato per stabilirsi in un altro stato membro, se non rinunciando al precedente stabilimento» (§ 18 della motivazione). In secondo luogo la stessa disposizione del Trattato va considerata come espressione specifica di un «principio generale, valido anche per le professioni liberali, in forza del quale il diritto di stabilimento implica, del pari, la facoltà di creare e di conservare, salve restando le norme professionali, più di un centro di attività nel territorio della comunità» (§ 19 delle conclusioni).

Il sistema delineato dal Trattato in tema di libertà di stabilimento dei professionisti e di libera prestazione di servizi ha dunque usufruito dell’apporto interpretativo della giurisprudenza comunitaria formatasi sulla professione forense; tuttavia la liberalizzazione di quest’ultima non poteva prescindere da un intervento delle istituzioni comunitarie.

Al riguardo si sono sviluppati due filoni normativi, l’uno relativo al riconoscimento dei diplomi (sul quale v. supra, § 3.), l’altro volto a facilitare l’esercizio comunitario della professione di avvocato.

5.1. La direttiva 77/249/CEE sulla libera prestazione di servizi da parte degli avvocati

L’attuazione della libertà di circolazione degli avvocati è avvenuta, anzitutto, con riferimento alla sola prestazione di servizi, attraverso la direttiva 22.3.1977, n. 249. Essa, sebbene sia contemporanea, non è assimilabile al gruppo delle direttive settoriali relative alle professioni sanitarie approvate nella metà degli anni settanta. Nella prima, infatti, viene enfatizzato il momento della prestazione e relegato in secondo piano il «riconoscimento» in senso stretto [55].

La direttiva impone agli Stati membri di riconoscere la qualifica di avvocati, limitatamente all’esercizio delle attività in regime di libera prestazione, a coloro che sono abilitati alla professione nel paese di provenienza, sotto le denominazioni elencate all’art. 1.2. (nella lista spiccano il Regno Unito e l’Irlanda per la singolarità della partizione solicitor-barrister). Da rilevare, anzitutto, che non vengono fornite indicazioni circa la durata del servizio reso nello Stato ospite, che si ritiene possa dipendere dalla natura del servizio erogato [56]. E’, invece, precisato l’obbligo dell’avvocato-prestatore di servizi di operare avvalendosi del titolo professionale espresso nella lingua dello Stato di provenienza, con indicazione dell’organizzazione o dell’ordine cui si è iscritti (art. 3). Tale previsione deve essere inquadrata nell’ambito delle limitazioni imposte dalle istituzioni comunitarie al fine di tutelare gli interessi generali [57].

Gli artt. 4 e 5 disciplinano poi, nel dettaglio, le condizioni cui è subordinata la prestazione dell’avvocato migrante in un altro stato membro. Il legislatore delinea un regime diverso a seconda delle attività svolte. In ordine alle attività giudiziali (relative alla rappresentanza e alla difesa di un cliente in giudizio o dinanzi alle autorità pubbliche) è previsto che siano esercitate in ogni Stato membro ospitante alle condizioni previste per gli avvocati stabiliti in questo Stato, ad esclusione di ogni condizione di residenza o d’iscrizione ad un’organizzazione professionale nello stesso Stato. Nell’ipotesi di esercizio di attività stragiudiziali, l’avvocato resta invece sottoposto alle condizioni dello Stato membro di provenienza.

Questa distinzione si riflette sulla determinazione delle regole professionali applicabili al prestatore. Per le attività giudiziali il rigore è maggiore, essendo recepito il principio della c.d. «doppia deontologia» (art. 4.2.): l’avvocato è infatti, tenuto a rispettare le regole professionali dello Stato membro ospitante, nonchè gli obblighi imposti dallo Stato membro di provenienza (un particolare regime è previsto per la Gran Bretagna e l’Irlanda, v. art. 4.3.). Il suddetto principio subisce un temperamento nel caso di esercizio di attività extragiudiziali: al professionista continuano ad applicarsi le norme di condotta dello stato di origine, fatto salvo il rispetto delle norme, qualunque sia la loro fonte, che disciplinano la professione nello Stato membro ospitante, in particolare quelle riguardanti l’incompatibilità fra l’esercizio delle attività di avvocato e quello di altre attività in detto Stato, il segreto professionale, il carattere riservato dei rapporti tra colleghi, il divieto per uno stesso avvocato di assistere parti che abbiano interessi contrapposti e la pubblicità (art. 4.4.). Tali norme, tuttavia, sono applicabili solo se esse possono essere osservate da un avvocato non stabilito nello Stato membro ospitante e nella misura in cui la loro osservanza sia giustificata oggettivamente per garantire in tale Stato il corretto esercizio delle attività di avvocato, la dignità della professione e il rispetto delle incompatibilità.

Il cumulo delle regole professionali, come qualcuno ha evidenziato, genera non poche difficoltà interpretative [58], soprattutto qualora le disposizioni degli Stati siano in contrasto tra loro [59].

Con riferimento alle attività giudiziali, l’art. 5 della direttiva identifica altri obblighi che gli Stati membri hanno la facoltà di imporre all’avvocato comunitaro: l’«essere introdotto» presso il presso il presidente della giurisdizione e, eventualmente, presso il presidente dell’ordine degli avvocati competente nello Stato membro ospitante, e l’«agire di concerto» con un avvocato che eserciti dinanzi alla giurisdizione adita e che sarebbe in caso di necessità responsabile nei confronti di tale giurisdizione.

Gli Stati membri hanno altresì la possibilità di escludere gli avvocati dipendenti, legati da un contratto di lavoro ad un ente pubblico o privato, dall’esercizio delle attività di rappresentanza e di difesa in giudizio di questo ente nella misura in cui gli avvocati stabiliti in detto Stato non siano autorizzati ad esercitare tali attività (art. 6).

Quanto all’ipotesi di inadempienza agli obblighi vigenti nello Stato membro ospitante, è previsto che l’autorità competente di quest’ultimo ne determini le conseguenze, secondo le proprie norme di diritto e di procedura; tale autorità può altresì farsi comunicare informazioni professionali utili sul prestatore, nonché esigere documenti comprovanti la qualità di avvocato (art. 7).

Nella direttiva in esame le istituzioni comunitarie si sono dunque impegnate per facilitare l’accesso e l’esercizio della professione forense attraverso il riconoscimento della autorizzazione ad esercitare (e non del titolo accademico), seppur lasciando considerevoli spazi di manovra agli Stati membri. Questi, nel recepire la direttiva, hanno per lo più tenuto un atteggiamento prudente verso la liberalizzazione, avvalendosi di ogni eccezione prevista dalla disciplina comunitaria: in particolare tutte le legislazioni nazionali hanno introdotto l’obbligo di concertazione, che è stato oggetto di alcuni interventi della Corte di Lussemburgo.

Per quel che concerne la nozione di «concerto», si segnala la pronuncia emanata nel procedimento avviato sul ricorso per infrazione promosso dalla Commissione europea nei confronti della Germania [60], all’esito del quale è stata ritenuta contraria agli obblighi previsti dalla direttiva, nonché agli artt. 59 e 60 del Trattato (versione originaria) la previsione, contenuta nella legge di recepimento tedesca, che imponeva all’avvocato dell’altro stato membro, per l’esercizio delle attività concernenti la rappresentanza e la difesa di un cliente in giudizio in regime di prestazione di servizi, di agire di concerto con un avvocato locale, anche nei casi in cui il diritto nazionale non prescriveva l’assistenza obbligatoria di un avvocato. Egualmente ingiustificate sono state ritenute le disposizioni che prescrivevano che l’avvocato locale fosse egli stesso mandatario ad litem o difensore nella causa nonché quelle che vietavano l’intervento nella trattazione orale o in udienza dell’avvocato straniero se non accompagnato dal professionista tedesco. In questo caso la Corte di Giustizia ha appoggiato la posizione della Commissione e superato gli argomenti fatti valere dal Governo tedesco, per il quale l’interesse alla buona amministrazione della giustizia giustificava la partecipazione costante dell’avvocato locale al procedimento al fine di evitare, nelle cause dinanzi ai giudici tedeschi, le difficoltà dovute al difetto di conoscenza delle norme di diritto sostanziale e processuale da parte degli avvocati stranieri. In particolare i giudici comunitari hanno giudicato sproporzionati, rispetto agli scopi del dovere di concertazione, le sopra citate modalità richieste per l’esercizio della prestazione professionale.

Infine nella medesima sentenza è stata altresì censurata l’applicazione agli avvocati prestatori di servizi del principio dell’esclusività territoriale della rappresentanza processuale, sancito dalla legge federale tedesca sulla professione forense. In ossequio ad esso il professionista stabilito nel territorio dello Stato, nelle cause in cui l’assistenza dell’avvocato era obbligatoria, doveva essere iscritto presso il tribunale adito; mentre l’avvocato che non era iscritto – come nel caso del prestatore – vantava poteri limitati, potendo solo presentare, con l’assistenza dell’avvocato iscritto, osservazioni nel corso della trattazione orale. La Corte, pur ritenendo comprensibile tale esclusività – in quanto facente parte di una disciplina nazionale che si riferisce di regola ad una attività permanente degli avvocati stabiliti nel paese membro – l’ha considerata inapplicabile ad attività professionali di carattere temporaneo, esercitate da soggetti stabiliti in un altro Stato membro, in quanto contraria agli obiettivi di liberalizzazione espressi dal Trattato comunitario.

5.2. Segue. L’attuazione della direttiva 77/249/CEE nell’ordinamento italiano: il caso Gebhard

La normativa italiana di recepimento della direttiva 77/249/CEE, di cui alla l. 9.2.1982, n. 31 [61], ha impegnato la Corte di Giustizia europea nella nota sentenza Gebhard [62]. La controversia traeva origine dalla vicenda del sig. Gebhard il quale, dopo aver lavorato per un certo periodo di tempo all’interno di uno studio legale di Milano, decideva di aprire un proprio studio al quale collaborano anche professionisti italiani. Dopo qualche tempo, Gebhard veniva sottoposto ad un procedimento disciplinare avviato dal competente Consiglio dell’Ordine per violazione dell’art. 2, 2° c., l. n. 31/1982 che stabiliva che l’avvocato straniero che intendeva prestare servizi in Italia non poteva stabilire nel territorio della Repubblica né uno studio né una sede principale o secondaria. La pronuncia si segnala perché offre l’occasione ai giudici comunitari non solo di verificare la compatibilità della disciplina italiana di recepimento con i principi della direttiva – atteso che in questa non vi è cenno del fatto che la facoltà di aprire uno studio potrebbe essere interpretata come segnale dell’intendimento del professionista di esercitare attività in forma non temporanea né occasionale, bensì con carattere di continuità –, ma altresì di precisare i criteri in base ai quali distinguere tra prestazione di servizi e stabilimento, nonché i limiti relativi a quest’ultimo.

Con riguardo alla prima questione, l’iter logico seguito della Corte è sottile. Essa ritiene, in primo luogo, che il carattere temporaneo delle attività professionali deve essere valutato non soltanto in rapporto alla durata della prestazione, ma anche tenendo conto della frequenza, periodicità o continuità di questa. Ciò implica che il carattere temporaneo della prestazione non esclude la possibilità per il prestatore di dotarsi, nello Stato membro ospitante, di una determinata infrastruttura (ivi compreso un ufficio o uno studio) «se questa infrastruttura è necessaria al compimento della prestazione di cui trattasi» (punto 27 della sentenza).

Tale ultima interpretazione, che implicitamente sancisce l’incompatibilità del divieto posto dall’ordinamento italiano con la direttiva 77/249/CEE, è condivisa dalla dottrina che è propensa a ritenere funzionale ad una più efficace fruizione della libertà di prestazione di servizi, il fatto che l’avvocato migrante possa disporre, nel paese ospitante, di una «base» che gli consenta di svolgere meglio la prestazione [63].

Ciò che intendeva vietare la norma di cui all’art. 2, 2° c., l. n. 31/1982, dunque, non era «la disponibilità di un locale ove svolgere attività professionale con carattere temporaneo, ma la presenza permanente di un complesso di elementi organizzativi che, pur nei periodi di assenza fisica dell’avvocato», ne garantivano la «costante presenza sul mercato» [64].

Con riguardo alla seconda questione affrontata dalla Corte, relativa alle condizioni ed ai limiti dello stabilimento del professionista, i giudici comunitari chiariscono anzitutto che l’attività svolta da Gebhard rientrava senza dubbio nel campo di applicazione delle disposizioni del Trattato comunitario relative alla libertà di stabilimento. Egli dunque era soggetto alla regola del trattamento nazionale, in virtù della quale era equiparato, per tutti gli aspetti connessi all’esercizio della professione, ai cittadini dello Stato ospitante.

Tale considerazione è la base che permette alla Corte di Giustizia di affermare il principio per cui «la possibilità per un cittadino di uno Stato membro di esercitare il suo diritto di stabilimento e le condizioni dell’esercizio di questo diritto devono essere valutate in funzione delle attività che egli intende esercitare nel territorio dello Stato membro ospitante». A questo punto, continua l’organo giudicante, occorre distinguere tra attività non soggette ad alcuna disciplina nello Stato ospitante, per l’esercizio delle quali dunque il cittadino migrante avrà diritto di stabilirsi nel territorio senza dover dimostrare alcun requisito – si pensi alle attività di consulenza legale stragiudiziale – e attività il cui esercizio è subordinato al rispetto di alcune condizioni che devono essere soddisfatte dal cittadino di un altro Stato membro (punti 34 e 36 della sentenza).

I provvedimenti nazionali che subordinano l’accesso ad alcune attività e che, di fatto, ostacolano l’esercizio delle libertà fondamentali del Trattato, sono tuttavia tollerati se soddisfano quattro condizioni: essi devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificati da motivi imperiosi di interesse pubblico, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo [65].

In conclusione, la sentenza Gebhard ha visto la Corte di Giustizia aderire ad una interpretazione estensiva del concetto di stabilimento dei cittadini di altri Stati membri, che trae spunto, si crede, dalla considerazione dei limiti che allora caratterizzavano la libertà di stabilimento degli avvocati all’interno dell’Unione europea. Non è un caso che le problematiche giuridiche ad essa sottese saranno recepite dalla direttiva 98/5/CE (16.2.1998), volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica.

5.3. La direttiva 98/5/CE e le prospettive della libertà di stabilimento degli avvocati

La direttiva 98/5/CE, approvata nel febbraio del 1998 dopo oltre tre anni di discussioni, è una importante tappa verso l’affermazione della figura dell’avvocato europeo [66]. L’adozione di questo strumento rappresenta, infatti, il punto di arrivo di un lento, ma necessario procedimento di liberalizzazione della professione forense a livello comunitario, cui ha contribuito soprattutto la giurisprudenza comunitaria.

L’esigenza di una regolamentazione del diritto di stabilimento degli avvocati era nota da tempo negli ambienti comunitari, ed era stata soddisfatta, solo in parte, con l’emanazione della direttiva 89/48/CEE sul reciproco riconoscimento dei diplomi. La direttiva del 1989, ora sostituita dalla direttiva 2005/36/CE (sulla quale v. supra, § 4.), consentiva, infatti, ai professionisti, dopo un periodo di tirocinio e previo superamento di una prova attitudinale, di acquisire il titolo professionale dello Stato membro ospitante, integrandosi completamente nell’ordine professionale, ed ivi di esercitare liberamente la propria attività. Sennonché questo apparato non rispondeva in maniera adeguata alle aspirazioni degli avvocati di svolgere in modo stabile la professione in un paese diverso da quello ove avevano acquisito il titolo professionale. Il sistema generale di reciproco riconoscimento dei diplomi, infatti, non regolamentava l’esercizio permanente della libera professione con il titolo del paese di origine, e la prova attitudinale, svolgendosi in modo differente nei vari Stati membri, dava luogo a forti discriminazioni [67].

La direttiva 98/5/CE colma le lacune evidenziate e si pone come obiettivo quello di facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato, come libero professionista o come lavoratore subordinato, in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale, utilizzando il titolo di origine.

A giustificare un’azione comunitaria in materia vi sono però – come riporta il 5° considerando che precede il testo della direttiva – non solo il bisogno di offrire agli avvocati un metodo più semplice ed elastico rispetto al sistema generale di riconoscimento – che consenta loro di integrarsi nella professione di uno Stato membro ospitante –, ma anche l’opportunità di soddisfare le esigenze degli utenti del diritto che, a motivo del flusso crescente delle attività commerciali – conseguente alla creazione del mercato interno –, richiedono consulenze in occasione di operazioni transfrontaliere, nelle quali si trovano spesso strettamente connessi il diritto internazionale, il diritto comunitario e i diritti nazionali.

L’art. 2, direttiva 98/5/CE sancisce il diritto degli avvocati di esercitare stabilmente la professione in tutti gli Stati membri avvalendosi del proprio titolo professionale di origine, previa iscrizione presso l’autorità competente dello Stato ospitante (subordinata alla presentazione del documento che attesti l’iscrizione del professionista presso l’autorità competente dello Stato di origine, art. 3). Questo obbligo di iscrizione – che è espressamente escluso qualora il professionista eserciti in regime di libera prestazione di servizi (art. 2, direttiva 77/249/CEE, su cui v. supra, § 5.1.) – è funzionale alla verifica, da parte dell’autorità competente dello Stato ospitante, del rispetto, da parte degli avvocati stabiliti, delle regole professionali e deontologiche ivi vigenti [68].

La direttiva 98/5/CE introduce quindi, un regime ulteriore rispetto al sistema generale di riconoscimento dei diplomi (ora delle qualifiche professionali) per facilitare l’esercizio della libertà di stabilimento degli avvocati.

Il professionista, dopo aver acquisito il titolo professionale, può dunque stabilirsi per l’esercizio dell’attività in uno Stato membro diverso, spendendo il titolo già acquisito (v. artt. 4-7, direttiva 98/5/CE). Si parla in proposito di «avvocato stabilito», il quale svolge le stesse attività professionali dell’avvocato in possesso del titolo rilasciato dal paese di accoglienza e può offrire consulenza legale sul diritto del proprio Stato membro d’origine, sul diritto comunitario, sul diritto internazionale e sul diritto dello Stato membro ospitante. Sennonché pare eccessivo che il soggetto in questione possa, fin da subito, prestare consulenza legale sul diritto del Paese ospitante, senza che gli venga imposto di formarsi in tale settore, né che la sua preparazione venga precedentemente valutata [69].

La liberalizzazione non è però completa, poiché il legislatore riconosce agli Stati la possibilità di introdurre due limitazioni all’esercizio professionale. In primo luogo i paesi che autorizzano una determinata categoria di avvocati a redigere sul loro territorio atti che conferiscono il potere di amministrare i beni dei defunti o riguardanti la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, che in altri Stati membri sono riservati a professioni diverse da quella dell’avvocato (i notai), possono escludere da queste attività l’avvocato che esercita con il titolo professionale di origine.

In secondo luogo, per quanto riguarda l’esercizio delle attività relative alla rappresentanza ed alla difesa di un cliente in giudizio, e nella misura in cui il diritto nazionale riservi tali attività agli avvocati che esercitano con un titolo professionale dello Stato membro ospitante, è data facoltà agli Stati membri di imporre l’obbligo di agire di concerto con un avvocato locale, chiamato ad assumere le responsabilità nei confronti della giurisdizione adita.

Con l’imposizione della formula del «concerto» con il professionista locale, già contemplata per la prestazione dei servizi da parte degli avvocati (art. 5, direttiva 77/249/CEE), il legislatore comunitario ha inteso evitare il sorgere di una disparità di trattamento tra questi ultimi e l’avvocato stabilito nello Stato membro ospitante, in merito alla possibilità di compiere attività di rappresentanza e difesa in giudizio [70]. L’obbligo di agire «di concerto» dovrà essere applicato, come precisa il considerando n. 10, direttiva 98/5/CE, in conformità all’interpretazione che di tale nozione ha dato la Corte di Giustizia nella sentenza 25.2.1988, 427/85, Commissione/Germania, nonché, si aggiunga, nella sentenza di poco successiva, Corte Giust. 10.7.1991, Commissione/Francia (su entrambe v. supra, § 5.1).

La disciplina che regola l’esercizio stabile dell’attività dell’avvocato presenta un altro punto di contatto con quella prevista per l’avvocato-prestatore di servizi: si tratta dell’applicazione del principio c.d. della doppia deontologia. L’art. 6, direttiva 98/5/CE, stabilisce infatti, che, indipendentemente dalle regole professionali e deontologiche cui è soggetto nel proprio Stato membro di origine, l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale d’origine è soggetto alle stesse regole professionali e deontologiche cui sono soggetti gli avvocati che esercitano col corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante [71], incluse quelle relative ai procedimenti disciplinari [72].

Prima di avviare un procedimento disciplinare, però, l’autorità competente dello Stato membro ospitante dovrà darne comunicazione, con la massima sollecitudine, a quella dello Stato membro di origine. Tale obbligo vale anche nel caso inverso, ossia nell’eventualità che sia l’autorità del Paese di provenienza ad avviare procedure disciplinari nei confronti dell’avvocato stabilito. La disciplina impone, quindi, una stretta collaborazione tra autorità in materia di procedimenti disciplinari a carico degli avvocati, sennonché non poche sono le perplessità circa l’effettività della tutela del professionista oggetto della procedura [73].

Da ultimo si osserva che la revoca temporanea o definitiva dell’abilitazione all’esercizio della professione forense disposta dall’autorità competente dello Stato membro di origine comporta automaticamente, per l’avvocato che ne è oggetto, il divieto temporaneo o definitivo di esercitare con il proprio titolo professionale nello Stato membro ospitante (art. 7.5).

5.3.1. La figura dell’avvocato assimilato

La grande innovazione contenuta nella direttiva 98/5/CE è quella relativa alla creazione della figura dell’avvocato c.d. “integrato” o “assimilato”, intendendosi come tale colui che, già in possesso di un titolo professionale acquisito nel Paese di origine, acquista automaticamente il titolo dello Stato membro ospitante. Ciò può avvenire in tre casi.

Nel primo caso l’avvocato che comprovi l’esercizio per almeno tre anni di un’attività effettiva e regolare nello Stato membro ospitante – riguardante il diritto di tale Stato, ivi compreso il diritto comunitario –, può accedere alla professione di avvocato dello Stato membro ospitante senza sottoporsi all’espletamento delle misure compensative (prova attitudinale o tirocinio di adattamento) previste dalla direttiva 89/48/CEE ed oggi riportare nell’art. 14.1., direttiva 2005/36/CE.

Per attività effettiva e regolare il legislatore comunitario intende l’esercizio reale dell’attività senza interruzioni che non siano quelle dovute agli eventi della vita quotidiana. Tale definizione, che esclude un esercizio con carattere di «permanenza», appare coerente con la giurisprudenza della Corte di Giustizia che, nella sentenza Klopp, ha precisato che il diritto di stabilimento comporta la possibilità di istituire e mantenere più di un centro di attività per l’esercizio della professione legale in Europa.

L’avvocato comunitario che intenda avvalersi di questa procedura di assimilazione dovrà provare all’autorità competente dello Stato di accoglienza la sussistenza dei suindicati presupposti. A tal fine potranno essergli richiesti informazioni e documenti utili, in particolare sul numero e la natura della pratiche trattate. Questo meccanismo esclude, però ogni controllo sulla preparazione professionale dell’avvocato comunitario [74], poiché si basa sulla presunzione che una pratica triennale del diritto nazionale sia garanzia sufficiente del grado di integrazione del professionista nell’ordinamento giuridico di accoglienza.

Nel secondo caso, l’assimilazione può avvenire attraverso la procedura di riconoscimento del titolo di cui alla direttiva 89/48/CEE, che permette di accedere alla professione di avvocato dello Stato membro ospitante e di esercitarla con il titolo professionale corrispondente.

Infine, potrà ottenere l’accesso alla professione nello Stato di accoglienza anche l’avvocato che vanti una pratica del diritto di detto Stato di durata inferiore a tre anni, ma che abbia complessivamente svolto attività effettiva e regolare per un triennio. In questo caso, però, l’autorità competente dello Stato membro ospitante deve valutare – attraverso un colloquio di accertamento – il carattere regolare ed effettivo dell'attività esercitata dal professionista. Rilevano, peraltro, anche le conoscenze e le esperienze professionali svolte dal richiedente nel diritto del paese ospite, nonché la sua partecipazione a «corsi o seminari che vertono sul diritto dello Stato membro ospitante, compreso l’ordinamento della professione e la deontologia professionale».

Per quanto riguarda il riferimento alla partecipazione ad incontri di studio, il legislatore comunitario nulla precisa. Ci si interroga quindi su quali siano le modalità di frequenza dei corsi o seminari e se sia necessario il superamento, da parte del professionista, di una prova finale; inoltre non è chiaro se le iniziative devono essere create appositamente ex novo, oppure è sufficiente avvalersi dei corsi attivati a livello accademico [75].

L’avvocato che ha ottenuto l’accesso alla professione attraverso l’utilizzo di una delle tre forme di assimilazione previste dalla direttiva, acquisisce il diritto di fare uso del titolo professionale dello Stato ospitante, nonché di quello di origine nella lingua (o in una delle lingue) di detto Stato. Con l’istituto dell’integrazione si realizza quindi, compiutamente, l’obiettivo dell’attuazione del diritto di libertà di stabilimento degli avvocati europei.

5.3.2. L’esercizio “in forma comune” della professione

La direttiva n. 5 del 1998 si occupa altresì dell’esercizio in forma comune della professione da parte di avvocati stabiliti nello Stato membro ospitante e che qui esercitano la professione con il loro titolo di origine.

Sono esplicitate tre possibili forme di cooperazione [76]. La prima riguarda l’ipotesi di uno o più avvocati, membri di uno stesso studio collettivo nello Stato membro di origine ed esercenti l’attività col proprio titolo professionale di origine in uno Stato membro ospitante. Ad essi il legislatore comunitario riconosce la facoltà di praticare l’attività professionale nell’ambito di una succursale o di un’agenzia del loro studio collettivo nello Stato membro ospitante.

La seconda forma di cooperazione prevede che ogni Stato membro garantisca la possibilità a due o più avvocati provenienti dal medesimo studio collettivo o dallo stesso Stato membro d’origine di accedere con il titolo professionale di origine ad una forma d’esercizio in comune della professione, nonché a tutte le forme di esercizio in comune della professione eventualmente consentite dall’ordinamento dello Stato membro ospitante, assoggettandosi alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che in esso disciplinano le modalità di esercizio in comune della professione.

Infine lo Stato membro ospitante può autorizzare l’esercizio in forma associata fra più avvocati provenienti da Stati membri diversi che esercitano con il loro titolo professionale di origine, o fra uno di questi avvocati e uno o più avvocati dello Stato membro ospitante.

In tutti e tre i casi, l’esercizio dell’attività è regolato dalle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative dello Stato membro ospitante.

L’avvocato che intende esercitare col proprio titolo professionale di origine deve comunque informare l’autorità competente dello Stato membro ospitante di far parte di uno studio collettivo nel proprio Stato membro di origine e fornire tutte le informazioni utili riguardanti quest’ultimo.

Una deroga comune a tutte e tre le ipotesi summenzionate è riportata nel 5° c. dell’art. 11, ove si precisa che lo Stato membro ospitante ha la facoltà di vietare l’esercizio in comune della professione agli avvocati in possesso del titolo professionale di origine, qualora nell’ambito dello studio associati operino soggetti estranei alla professione. Tra essi vi rientrano coloro che detengono in tutto o in parte il capitale sociale dello studio, che ne utilizzano la denominazione o esercitano il potere decisionale di fatto o di diritto.

Infine, a tutela dei diritti dei clienti, è previsto che gli avvocati che esercitano la professione con il loro titolo professionale di origine possano menzionare nello Stato membro ospitante la denominazione dello studio collettivo di cui fanno parte nello Stato membro di origine. Lo Stato membro ospitante può inoltre esigere che sia indicata anche la forma giuridica dello studio collettivo nello Stato membro di origine e/o i nomi dei suoi membri che esercitano nel proprio territorio.

L’esercizio in comune della professione costituisce, secondo la dottrina, un terreno di scontro ove «si giocheranno le sorti della professione legale in Europa» [77]. La direttiva, infatti, optando per una armonizzazione minima di questo aspetto, lascia ampi spazi alla discrezionalità dei legislatori nazionali. È indubbio che gli Stati membri potranno fornire indicazioni anche molto diverse con riguardo, per esempio, alla possibilità di avvalersi, per l’esercizio in comune della professione, di strutture societarie di capitali, dal momento che il legislatore comunitario omette di fornire dettagli circa la forma giuridica da utilizzarsi.

5.4. L’applicazione della direttiva 98/5/CE con particolare riferimento al recepimento nell’ordinamento italiano

La direttiva 98/5/CE e la relativa normativa di attuazione delineano la figura dell’avvocato europeo, il quale circola liberamente all’interno dell’Unione europea, si stabilisce in uno Stato membro diverso da quello di origine, e ivi esercita la professione con il titolo acquisito, ed eventualmente si assimila con i professionisti dello Stato ospitante, avvalendosi del loro titolo professionale. Le diverse ipotesi di stabilimento che la direttiva consente accentuano la frammentarietà delle forme di esercizio transfrontaliero della professione forense, che vanno dall’avvocato stabilito, a quello prestatore di servizi con o senza infrastruttura, oppure all’avvocato con stabilimento secondario. Tale diversificazione, se da un lato garantisce maggiore flessibilità ai professionisti – che vedono crescere esponenzialmente la domanda di servizi, con l’intensificazione dei processi di integrazione europea e di globalizzazione –, dall’altro aggrava il rischio di abusi e di elusioni della disciplina posta a tutela del destinatario finale del servizio [78].

La Corte di Giustizia ha però, fornito un giudizio positivo sui contenuti della direttiva in questione, ribadendone la piena validità. La pronuncia è stata resa dai giudici comunitari [79] nell’ambito di un procedimento avviato su ricorso del Granducato di Lussemburgo che riscontrava nella direttiva una disparità di trattamento tra avvocati cd. migranti e avvocati nazionali a sfavore di questi ultimi (in violazione dell’art. 52.2. del Trattato istitutivo, che stabiliva il divieto di discriminazione), nonché la lesione dell’interesse generale relativamente alla protezione dei consumatori e ad una buona amministrazione della giustizia.

Riguardo al primo motivo, le doglianze del Lussemburgo si appuntavano sulla possibilità riconosciuta all’avvocato migrante – a differenza dell’avvocato nazionale – di esercitare la professione nello Stato di accoglienza a prescindere da qualsiasi obbligo di formazione preliminare e senza che vi fosse alcuna verifica dell’acquisizione delle conoscenze nel campo del diritto nazionale del paese membro ospitante. La Corte di Giustizia, in questa ipotesi, ha escluso la violazione del principio di uguaglianza – che fa parte dei principi fondamentali del diritto comunitario – giacché le posizioni dell’avvocato migrante che esercita con il suo titolo professionale d’origine e dell’avvocato locale, non sono paragonabili: al primo infatti, possono essere interdette alcune attività (v. art. 5.2., direttiva 98/5/CE) e possono essere imposti alcuni obblighi (art. 5.3.).

Quanto poi alla lesione dell’interesse generale, i giudici comunitari hanno respinto le tesi del Lussemburgo richiamando le disposizioni della direttiva che enunciano norme volte alla protezione dei consumatori e ad una buona amministrazione (artt. 4, 5.1., 5.2., 6.1., 6.3., 7). Peraltro, ha constatato la Corte, il legislatore comunitario non ha soppresso l’obbligo di conoscenza del diritto nazionale applicabile ma, per favorire la libertà di stabilimento degli avvocati, ha preferito adottare una formula che prevede una assimilazione progressiva delle conoscenze mediante la pratica, anziché un controllo preventivo del possesso di tali conoscenze.

L’attuazione della direttiva 98/5/CE nell’ordinamento italiano è avvenuta con il d.lgs. 2.2.2001, n. 96, emanato sulla base della delega contenuta nell’art. 19 della legge comunitaria 1999 (l. 21.12.1999, n. 526). Il testo approvato non si discosta dalle linee fondamentali tracciate in sede europea: l’esercizio permanente della professione forense in Italia è consentito a tutti i cittadini dell’Unione europea attraverso le figure dell’avvocato stabilito e dell’avvocato integrato. Il primo esercita la professione con il titolo professionale acquisito nello Stato di origine; egli è tenuto ad iscriversi in una sezione speciale dell’albo costituito nella circoscrizione del tribunale in cui ha fissato la residenza o il domicilio professionale e, nell’attività in giudizio, deve agire d’intesa con un professionista italiano abilitato a svolgere la professione di avvocato (v. artt. 6-11, d.lgs. n. 96/2001). Dopo tre anni di esercizio effettivo e regolare dell’attività forense in Italia, nonché di iscrizione alla sezione speciale dell’albo, l’avvocato stabilito può ottenere la dispensa dalla prova attitudinale prevista dall’art. 8, d.lgs. n. 115/1992, attuativo della direttiva 89/48/CEE sul riconoscimento dei titoli di studio (ora art. 11, direttiva 2005/36/CE) ed iscriversi all’albo degli avvocati. Egli dunque diventa «integrato» e può esercitare la sua attività anche con il titolo di avvocato italiano (artt. 12-15). La procedura per la dispensa – che si svolge dinanzi al Consiglio dell’Ordine presso il quale l’avvocato stabilito è iscritto – esclude ogni momento di controllo sulla preparazione professionale del professionista comunitario, e si basa quindi sul presupposto che la pratica triennale del diritto nazionale offra sufficienti garanzie per l’integrazione del soggetto. Nel caso in cui l’attività svolta nel diritto nazionale dall’avvocato stabilito risulti essere di durata inferiore al triennio, la dispensa dalla prova attitudinale non è automatica, ma è necessario che il professionista sia sottoposto ad un colloquio dinanzi al Consiglio dell’ordine finalizzato a valutare l’operato svolto, nonché le conoscenze e le esperienze professionali acquisite nel diritto italiano.

La principale novità del d.lgs. n. 96/2001 è contenuta nel titolo II, nel quale si disciplina l’esercizio della professione di avvocato in forma societaria. Il legislatore italiano ha dunque, introdotto nell’ordinamento interno la società tra avvocati, sulla base dello spunto fornito dalla direttiva 98/5/CE [80], che all’art. 11 dispone che gli avvocati stabiliti, già membri di uno studio collettivo nello Stato membro di origine, possano esercitare la professione nel paese ospitante nell’ambito di una succursale locale, purché le regole dello Stato di origine sullo studio collettivo non siano in contrasto con le regole fondamentali dello Stato ospitante, disposte nell’interesse generale della tutela dei clienti e dei terzi. La figura societaria regolata dal decreto [81] e, in via residuale, dalle norme previste per la società in nome collettivo (art. 16.2, d.lgs. n. 96/2001), rientra nella categoria più ampia delle società tra professionisti le quali, già note nell’ambito del diritto d’impresa, non hanno ancora ricevuto nell’ordinamento italiano una disciplina organica [82]. Proprio la regolamentazione della società tra avvocati potrebbe dunque costituire un’utile schema di riferimento per il legislatore nella predisposizione della disciplina generale delle società professionali [83].

La società tra avvocati (abbreviata s.t.p.) [84], come tutte le società, deve essere iscritta – ai fini di certificazione anagrafica e di pubblicità-notizia – in una sezione speciale del registro delle imprese, nonché in una sezione speciale dell’albo degli avvocati. Quanto all’oggetto sociale, esso è esclusivo e consiste nell’esercizio in comune della professione forense da parte dei soci, ovvero dell’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio. I soci possono essere soltanto soggetti in possesso del titolo di avvocato, italiani o comunitari stabiliti (v. infra). Quindi è inammissibile l’adozione di questo modello per lo svolgimento di attività interdisciplinari in ambito professionale, ossia non può essere impiegato per costituire società interprofessionali, né è previsto che un’associazione professionale (v. l. 23.11.1939, n. 1815) possa partecipare ad una società tra avvocati [85].

Esclusivamente ai soci e non a terzi deve essere affidata l’amministrazione della società, che avviene in modo disgiunto, salvo diversa pattuizione. L’incarico professionale è assunto dalla società (art. 24, d.lgs. n. 96/2001). Al cliente spetta il diritto di scelta del professionista; in difetto la società gli comunica, prima dell’inizio dell’esecuzione del mandato, quale sia il professionista incaricato.

Il legislatore ha dunque delineato, nella società tra avvocati, una scissione tra imputazione giuridica dell’attività e sua esecuzione. L’una compete alla società che, essendo titolare dell’attività, è altresì creditrice del compenso. L’altra è rimessa al socio professionista che risponde personalmente e illimitatamente dell’attività eseguita. La disciplina relativa all’incarico professionale permette di fare luce sul regime della responsabilità professionale, di cui all’art. 26 del d. lgs. n. 96 del 2001 [86]. Il sistema distingue le obbligazioni sociali in due categorie: quelle derivanti dall’attività professionale e quelle che invece non derivano da essa. Per le prime risponde personalmente ed illimitatamente il socio incaricato, nonché la società con il suo patrimonio. Sono di regola esenti da ogni responsabilità gli altri soci (a meno che la società non abbia preventivamente comunicato al cliente il nome del socio incaricato). Per le seconde rispondono in via sussidiaria personalmente e solidalmente tutti i soci.

Oltre alla responsabilità professionale, il legislatore prevede una responsabilità disciplinare [87]. Viene qui stabilito un principio generale per cui la società deve rispondere delle violazioni delle stesse norme professionali e deontologiche applicabili al singolo avvocato. Tale previsione impone, secondo la dottrina, una modifica, o almeno una reinterpretazione, delle norme stesse, le quali presentano obblighi che sembrano di solito, potersi riferire esclusivamente alle persone fisiche e non a quelle giuridiche [88].

 

Nel complesso si può affermare che l’istituzione della società professionale nel settore della professione forense costituisce certamente uno stimolo per proseguire il dibattito sul tema delle società tra professionisti in genere. Nella disciplina sopra sinteticamente tratteggiata tuttavia, i commentatori hanno rimarcato lacune e aspetti di opinabilità – come, per esempio, il mancato approfondimento del regime fiscale della figura societaria [89] –, che li hanno indotti ad esprimere giudizi non completamente positivi [90].

Il decreto legislativo n. 96 del 2001 si occupa altresì di regolamentare l’esercizio in comune della professione da parte degli avvocati stabiliti (titolo III). Al riguardo l’art. 34 prevede che questi possano associarsi tra loro, o con uno o più professionisti, nel rispetto della normativa stabilita dalla l. n. 1815/1939 relativa alle associazioni professionali. In questo caso l’associazione non può assumere incarichi, i quali vengono invece assunti direttamente dagli associati. Gli avvocati stabiliti, inoltre, possono, in qualità di soci, esercitare la professione nell’ambito di società tra avvocati, purché almeno uno degli altri soci sia in possesso del titolo di avvocato (art. 35, d.lgs. n. 96/2001).

Di particolare interesse, infine, la disposizione di cui all’art. 36, il quale stabilisce che società professionali costituite secondo il diritto nazionale degli altri Stati membri possano esercitare l’attività professionale tramite propri soci in Italia, nell’ambito di sedi secondarie. L’unica condizione richiesta è che la società sia costituta esclusivamente da soci professionisti abilitati all’esercizio della professione forense. Tale disciplina appare preordinata a permettere l’accesso all’esercizio della professione forense in Italia a grandi studi legali esteri costituiti in società. Tuttavia è possibile che le strutture societarie estere che aprono sedi secondarie in Italia presentino peculiarità incompatibili con la disciplina interna relativa alle società tra professionisti. Quindi il 3° c. della disposizione in esame enuncia una serie di principi che le strutture societarie europee devono rispettare nell’esercizio dell’attività professionale, al fine di assicurare la parità tra i diversi operatori. Inoltre l’avvocato stabilito, socio di una sede secondaria di una società europea, potrà esercitare l’attività giudiziale solo «d’intesa» con un altro socio che sia in possesso del titolo di avvocato.

Per concludere, il d.lgs. n. 96/2001 ad oggi ha dato origine ad un contenzioso assai ridotto; si annoverano, infatti, due pronunce concernenti l’una il riconoscimento del diritto di ottenere l’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo ordinario, presso il consiglio dell’ordine locale da parte dell’avvocato che assume le funzioni di addetto al servizio giuridico rispettivamente della commissione europea e del consiglio dell’Unione europea, con sede in Bruxelles [91] e l’altra la non configurabilità dell’associazione tra professionisti come centro di imputazione di interessi né come ente collettivo, con autonomia strutturale e funzionale [92].

6. Professioni e concorrenza

Per quanto concerne la libertà di stabilimento e di prestazione di servizi dei professionisti l’Unione europea ha raggiunto un considerevole livello di attuazione, cui ha contributo l’evoluzione del diritto comunitario nonché della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Dal raggiungimento dell’obiettivo della libera circolazione delle professioni, da qualche tempo l’attenzione si è spostata però verso altre tematiche. In particolare è la questione dell’applicabilità alle professioni del diritto comunitario della concorrenza a suscitare interesse per le istituzioni comunitarie e per quelle dei singoli Stati membri [93].

Delle norme sulla concorrenza sono destinatarie imprese ex art. 81 Tratt. CE; l’applicazione di esse ai professionisti presuppone quindi che questi siano identificati come tali. Il Trattato istitutivo, però, non chiarisce, ai fini dell’applicazione del diritto comunitario, il concetto di impresa, sul quale si è soffermata la giurisprudenza comunitaria. La Corte di Giustizia, infatti, ha elaborato una peculiare nozione di impresa che ha ad oggetto non un’entità dalla personalità giuridica definita – come prevede, per esempio, la normativa italiana che isola la nozione di imprenditore e di società commerciale –, ma un’entità con determinati caratteri economici. La Corte ha quindi, avvalorato una interpretazione estensiva della nozione di impresa secondo il Trattato comunitario, nella quale rientra qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento [94]. Per l’esistenza di un’impresa, secondo i giudici comunitari, è sufficiente che vi sia un’attività economica caratterizzata dalla prestazione di servizi dietro retribuzione, al fine di ottenere un profitto. Tale condizione di certo sussiste anche nel caso dei professionisti, le cui prestazioni rientrerebbero dunque nell’ambito di operatività degli artt. 81 ss. Tratt. CE.

Questa definizione, si rammenta, è propria della giurisprudenza della Corte di Giustizia, mentre è assente nel diritto comunitario primario e secondario [95].

I professionisti sono dunque imprese [96], ma particolari, per le quali le esigenze del libero mercato devono essere contemperate con quelle di «salvaguardare gli elevati livelli morali ed etici» [97].

I professionisti, in quanto imprese, necessitano di una regolamentazione anticoncorrenziale, come ha rilevato la Commissione europea nella Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali (COM 83 (9.2.2004))  e ciò per tre ragioni: l’esistenza di una asimmetria dell’informazione tra clienti e prestatori di servizi, dovuta al fatto che una caratteristica essenziale dei prestatori dei servizi professionali è il livello elevato di conoscenze tecniche di cui dispongono e di cui i consumatori possono essere privi; l’impatto che servizi in questione possono potenzialmente avere su terzi; infine, nel caso di taluni servizi professionali, la produzione di “beni pubblici” che presentano un valore per la società in generale.

L’applicazione delle regole della concorrenza a coloro che esercitano una professione liberale rileva soprattutto con riferimento agli ordini e collegi professionali. L’infrazione del diritto comunitario della concorrenza, infatti, consegue più che ad un comportamento del singolo soggetto, ad una decisione degli organi di categoria. Da qui la qualificazione degli stessi come associazioni di imprese, soggette alle norme sulla concorrenza [98].

L’accostamento del concetto comunitario di impresa ai professionisti è avvenuto nel corso degli anni novanta [99] nell’ambito di alcune pronunce della Corte di Giustizia, tra le quali si ricorda quella relativa al caso degli spedizionieri doganali italiani [100]. Più precisamente, l’organo rappresentativo di questa categoria, il Consiglio nazionale degli Spedizionieri doganali (C.n.s.d.), era stato incaricato dallo Stato italiano di fissare la tariffa delle prestazioni professionali effettuate dagli esercenti la professione spedizionieri. La Commissione europea aveva sostenuto l’illegittimità della tariffa adottata per contrasto con l’art. 85.1. Tratt. CE, ora art. 81.1. Tratt. CE, nonché della legge italiana che prevedeva l’obbligatorietà di tale tariffa per gli spedizionieri. Prodromica alla risoluzione della questione della legittimità del sistema di tariffe vi era quella della qualificazione come impresa dello spedizioniere (professionista). All’udienza il Governo italiano si era espresso in senso contrario a tale riconoscimento, sostenendo che il singolo spedizioniere non poteva essere considerato impresa in quanto esercente una professione liberale. La Corte respinse questa eccezione osservando che, nonostante l’attività degli spedizionieri doganali fosse intellettuale, richiedesse un’autorizzazione e potesse essere svolta senza la combinazione di elementi materiali, immateriali e umani, essa presentava natura economica. Gli spedizionieri, infatti, si legge nella sentenza, «offrono, contro retribuzione, servizi che consistono nell’espletare formalità doganali, concernenti soprattutto l’importazione, l’esportazione e il transito di merci, e anche altri servizi complementari, quali quelli appartenenti ai settori monetario, commerciale e tributario».

Gli spedizionieri sono dunque imprese secondo la nozione comunitaria, ed altresì la loro organizzazione professionale – il consiglio nazionale degli spedizionieri doganali – deve essere considerata un’associazione di imprese cui vanno applicate le norme sulla concorrenza (in particolare l’art. 81 Tratt. CE), e ciò indipendentemente dal fatto che il C.n.s.d. goda di uno status di diritto pubblico. A questo proposito la Corte di Giustizia, avvalendosi di due criteri connessi alla composizione dell’organo e alla disciplina legale delle sue attività, ha escluso che l’associazione possa essere accreditata come un’autorità pubblica. Da un lato, infatti, del C.n.s.d. fanno parte solo rappresentanti appartenenti alla professione, i quali non possono essere qualificati come esperti indipendenti. Dall’altro essi possono agire nell’esclusivo interesse dei professionisti rappresentati, talché la legge non gli impone il rispetto di un certo numero di criteri di interesse pubblico (p.to 44 della sentenza) [101]. L’iter logico seguito dalla Corte nel caso degli spedizionieri doganali è stato poi esteso ad altre professioni. In relazione ai medici, nella sentenza Pavlov [102], i giudici comunitari hanno qualificato come associazione di imprese l’organizzazione rappresentativa della professione ed hanno ritenuto in contrasto con l’art. 85 del Trattato la decisione da essa adottata di istituire, per i membri medici specialisti, un fondo pensione incaricato della gestione di un regime pensionistico complementare e di chiedere alle pubbliche autorità di rendere obbligatoria l’iscrizione a tale fondo per tutti i membri della detta professione. Al punto 87 della sentenza la Corte ha altresì affermato che «la decisione di un ente con poteri regolamentari in un determinato settore può non dipendere dall’art. 85 del Trattato allorché esso sia composto o in maggioranza da rappresentanti della pubblica autorità, o assuma la detta decisione nel rispetto di taluni criteri di interesse pubblico».

Riguardo gli avvocati, la Corte di Giustizia si è pronunciata sulla loro qualificabilità come imprese e di conseguenza dell’Ordine professionale come associazione di imprese, nella sentenza Wouters [103] (sulla quale v. infra).

Date per assunte l’identificazione dei professionisti come imprese e degli ordini come associazioni di imprese, e di conseguenza l’applicazione ad essi del diritto comunitario della concorrenza, occorre approfondire l’esame delle tre principali forme di distorsione del regime concorrenziale nella disciplina delle professioni: le tariffe, la pubblicità e l’esercizio in forma integrata della professione.

6.1. Le tariffe

In via di principio le tariffe [104] costituiscono una evidente alterazione nel modello di mercato propugnato dal legislatore comunitario e basato sull’applicazione del principio di concorrenza, poiché impediscono che il prezzo di un bene o servizio sia determinato liberamente dai meccanismi della domanda e dell’offerta. Con riguardo alle tariffe professionali, le istituzioni comunitarie si sono interrogate sulla loro possibile qualificazione come decisioni di associazioni di imprese, vietate ai sensi dell’art. 81 Tratt. CE (già art. 85 ora art. 101 Tfue) se dirette a «impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune». Tuttavia, come è stato rilevato [105], sia le particolarità del procedimento di formazione delle tariffe – che spesso prevede la partecipazione dell’ordine professionale nonché di un organo pubblico –, sia la rilevanza economico sociale delle stesse, hanno indotto la giurisprudenza comunitaria ad assumere – almeno in un secondo momento – una posizione non del tutto contraria al sistema delle tariffe.

Del problema delle tariffe professionali si è occupata inizialmente la Commissione europea che, con due decisioni della metà degli anni novanta relative agli spedizionieri doganali italiani [106] e ai consulenti spagnoli in materia di proprietà industriale [107], ha rilevato la presunta illegittimità delle tariffe predisposte dai rispettivi Collegi professionali (il Consiglio nazionale degli Spedizionieri doganali, abbreviato C.n.s.d., e il Colegio oficial de Agentes de la Propiedad industrial – C.o.a.p.i.) in quanto lesive del principio di concorrenza. Dal caso degli spedizionieri ha tratto origine il procedimento di infrazione nei confronti della Repubblica italiana conclusosi con sentenza della Corte di Giustizia europea [108].

Da essa si è dedotto che le decisioni con le quali il Consiglio nazionale degli spedizionieri doganali fissava una tariffa uniforme – compresa tra un minimo ed un massimo – e vincolante per tutti gli spedizionieri doganali, limitavano la concorrenza ai sensi dell’art. 85 Tratt. CE (versione originaria) e pregiudicavano gli scambi intracomunitari, nonostante le deliberazioni fossero sottoposte all’approvazione dell’autorità pubblica (nella specie un decreto del ministero delle finanze). La Corte ha altresì affermato, quanto all’incidenza delle tariffe sugli scambi, che «un’intesa che si estenda a tutto il territorio di uno Stato membro ha, per natura, l’effetto di consolidare la compartimentazione dei mercati a livello nazionale, ostacolando così l’integrazione economica voluta dal Trattato» (punto 48). Un ultimo importante punto della pronuncia sugli spedizionieri attiene alla condanna che la Corte ha emesso nei confronti dello Stato italiano per violazione degli obblighi impostigli dagli attuali artt. 10 e 81 Tratt. CE, avendo esso adottato e mantenuto in vigore una legge che impone al Consiglio nazionale degli spedizionieri doganali l’adozione di una decisione d’associazione di imprese – in contrasto con le regole comunitarie di concorrenza – consistente nel fissare una tariffa obbligatoria per tutti i professionisti in questione. I giudici comunitari hanno quindi ribadito – secondo una linea interpretativa già riscontrabile in una certa giurisprudenza sulla violazione delle regole sulla concorrenza dovuta ad accordi tariffari, con riferimento però ad attività diverse dalle libere professioni [109] - che gli Stati hanno l’obbligo di non demandare ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni d’intervento in materia economica.

Le prime decisioni della Commissione europea e della Corte di Giustizia in materia di tariffe professionali hanno contribuito a stimolare, nei vari Stati europei, del dibattito a più livelli (dottrina, giurisprudenza, organizzazioni professionali) sul sistema delle tariffe.

In Italia alcuni giudici nazionali [110] hanno sottoposto alla Corte di Giustizia questioni in via pregiudiziale relative a vari aspetti di presunta incompatibilità col diritto comunitario della concorrenza dei provvedimenti adottati dagli ordini professionali.

Una prima vicenda attiene alle tariffe professionali degli architetti italiani nel caso Conte [111]. Il rinvio ai giudici comunitari è stato effettuato nell’ambito di una causa di opposizione a decreto ingiuntivo emesso a favore di un architetto nei confronti di un cliente che non aveva pagato la parcella professionale. Il provvedimento era stato ottenuto sulla base di un parere di liquidazione conforme emanato dal competente Consiglio dell’Ordine. Il giudice di pace di Genova, adito per l’opposizione, aveva proposto alla Corte di Giustizia alcune questioni tendenti a verificare la compatibilità delle norme in materia di minimi tariffari con i principi comunitari. La Corte , in questo caso, non si è spinta ad indagare sulla legittimità della tariffa, ma ha circoscritto il thema decidendum, contestualizzandolo alla situazione particolare sottoposta alla sua attenzione, ossia verificare la compatibilità con il diritto comunitario di una normativa nazionale che demanda ad una commissione istituita presso il Consiglio dell’Ordine e composta da soli iscritti all’Ordine medesimo, il potere di emettere un provvedimento discrezionale di liquidazione dell’onorario di valenza tale da vincolare il giudice alla pronunzia di una ingiunzione di pagamento conforme al provvedimento di liquidazione del Consiglio stesso. A tale quesito i giudici hanno fornito una soluzione negativa, affermando che il giudice nazionale deve attenersi al parere dell’organizzazione professionale solo nel procedimento di ingiunzione e non nel giudizio di opposizione, e che la tariffa applicata appartiene alla categoria degli onorari, che sono discrezionalmente stabiliti dal professionista.

Ben diversa rilevanza – in quanto inerente le tariffe forensi italiane – ha avuto la pronuncia Arduino [112], originata dal rinvio operato dal Pretore di Pinerolo che, in sede di liquidazione delle spese giudiziali a carico di un imputato di un procedimento penale, aveva fissato gli onorari in un importo inferiore al minimo previsto, disapplicando la tariffa professionale corrispondente alla tabella degli onorari prevista in Italia per le prestazioni degli avvocati (emanata con d.m. 5.10.1994, n. 585). Per inciso, nel sistema italiano è previsto, ex art. 57, r.d.l. 27.11.1933, n. 1578 (convertito in l. 22.1.1934, n. 36) che i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovuti agli avvocati siano stabiliti ogni biennio con deliberazione dell’organismo rappresentativo della categoria – il Consiglio nazionale forense (C.n.f.) – e le tariffe siano successivamente approvate dal Ministro, sentito il parere del Comitato interministeriale dei Prezzi (C.i.p.).

Tornando al caso Arduino, la Corte italiana di Cassazione, con sentenza 29.4-6.7.1998, n. 1363, aveva annullato la decisione del Pretore e rimesso la questione a quest’ultimo, il quale aveva deferito il caso alla Corte di Giustizia, chiedendo in sostanza di verificare «se gli artt. 5 del Trattato CE (divenuto art. 10) e 85 (poi art. 81) del Trattato ostino all’adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell’ordine, qualora tale misura statale sia adottata nell’ambito di un procedimento come quello previsto dalla normativa italiana» (punto 32 della sentenza). Si chiedeva, dunque, ai giudici comunitari di pronunciarsi sulla compatibilità col diritto comunitario del sistema delle tariffe minime e massime previste dall’ordinamento italiano con riferimento agli onorari degli avvocati.

La Corte ha anzitutto osservato che uno Stato incorre in una violazione delle norme del Trattato sulla concorrenza in due casi: quando imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con il divieto di intese restrittive o rafforzi gli effetti di siffatti accordi, ovvero tolga alla propria normativa il suo carattere pubblico, delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni d’intervento in materia economica. È sull’insussistenza di quest’ultimo aspetto che si fonda il percorso logico dei giudici nel caso Arduino. Essi hanno ritenuto che la normativa nazionale italiana non contenga modalità procedurali, né prescrizioni di merito idonee a garantire che il C.n.f. si comporti, in sede di elaborazione del progetto di tariffa, come un’articolazione del pubblico potere che agisce per obiettivi di interesse pubblico. I giudici hanno altresì rilevato che lo Stato italiano non rinuncia ad esercitare il suo potere di decisione in ultima istanza o a controllare l’applicazione della tariffa. Il C.n.f., infatti, è incaricato soltanto di approntare un progetto di tariffa privo, in quanto tale, di forza vincolante fino all’approvazione da parte del Ministro, il quale può non concederla - e in questo caso il progetto di tariffa non entra in vigore, e resta la tariffa precedentemente approvata – o decidere di far emendare il progetto presentato dal C.n.f. La Corte di Giustizia ha precisato, infine, che anche il giudice nazionale dispone di un margine discrezionale di applicazione della tariffa (v. punti 41 e 42 della sentenza).

Sulla base dei suindicati argomenti, la Corte ha concluso con il ritenere il sistema di determinazione delle tariffe forensi in linea con i principi comunitari [113].

Risulta evidente, nel caso di specie, la volontà del giudice comunitario di differenziare le tariffe degli avvocati, approvate dal Ministro della Giustizia su proposta non vincolante del C.n.f., da quelle degli spedizionieri doganali, decise invece dal C.n.s.d., le cui delibere sono vincolanti anche prima o in mancanza dell’approvazione ministeriale, che ha l’effetto di renderle obbligatorie verso i terzi. Nella sentenza sugli spedizionieri la Corte ha considerato che la disciplina nazionale ha demandato completamente all’operatore privato il potere dell’autorità pubblica in materia di determinazione delle tariffe, mentre per gli avvocati non esiste alcuna delega di poteri pubblici in quanto ogni decisione definitiva spetta all’organo politico.

L’iter logico seguito dalla Corte di Giustizia nel caso Arduino ed esposto nella sintetica motivazione della sentenza non è rimasto, però, esente da critiche, emerse per lo più nel confronto con le più che articolate conclusioni presentate il 10.10.2001 dall’Avvocato generale Léger [114], il quale era giunto ad una soluzione del caso parzialmente difforme. L’avvocato, pur ritenendo che la decisione del C.n.f. non fosse idonea a restringere o falsare il gioco della concorrenza – essendo un atto preparatorio nell’ambito di un procedimento legislativo non vincolante –, non negava che il successivo decreto ministeriale di approvazione potesse configurarsi come tale. A questo proposito, nelle Conclusioni, venivano suggerite tre condizioni che potevano far ritenere compatibile con gli artt. 10 e 81 Tratt. CE (ex artt. 5 e 85) una misura statale restrittiva della concorrenza: che le pubbliche autorità dello Stato membro esercitassero un controllo reale sul contenuto dell’intesa; che la misura legislativa perseguisse uno scopo legittimo di interesse generale, e che infine, fosse proporzionata rispetto allo scopo perseguito (nel caso di specie l’ultima condizione, secondo l’avvocato Léger, non poteva essere superata, in quanto la misura appariva sproporzionata, ossia l’adozione di una tariffa non consentiva il raggiungimento dell’obiettivo della qualità della prestazione professionale). Nella pronuncia Arduino la Corte ha tralasciato di valutare, come invece aveva auspicato l’Avvocato generale, l’effettività del controllo esercitato dalle autorità pubbliche dello Stato sul contenuto della tariffa proposta dall’ordine. Se l’avesse fatto, forse si sarebbe potuto accertare che il procedimento era analogo a quello degli spedizionieri doganali [115], verso i quali la Corte non è stata così tollerante.

L’approccio seguito dalla Corte di Giustizia nel caso Arduino, di «salvare» le tariffe degli avvocati dai principi della concorrenza [116], sembra costituire un arretramento rispetto alla precedente posizione assunta verso gli spedizionieri doganali italiani, le cui tariffe, stabilite dalla rispettiva associazione nazionale, sono state ritenute in contrasto con la disciplina comunitaria. Tale giudizio, come rileva la dottrina, non è però del tutto confacente, se si approfondiscono le argomentazioni portate dalla Corte a motivazione della decisione Arduino. Da tale sentenza, infatti, emerge che le tariffe professionali sono considerate giustificate «solo in quanto sottoposte ad un controllo statale e ad una approvazione che interrompe il nesso fra la proposta dell’ordine professionale e la tariffa approvata per legge» [117]. Ciò che appare errato è ritenere queste caratteristiche esistenti nella concreta situazione italiana.

Nella nota sentenza Cipolla e Macrino del 5.12.2006 [118], la Corte di Giustizia viene nuovamente investita della questione della compatibilità della normativa sulle tariffe degli avvocati italiani con la disciplina comunitaria della concorrenza. La pronuncia trae origine da alcune questioni pregiudiziali (poi riunite) sollevate dalla Corte di Appello di Torino [119] e dal Tribunale di Roma [120] nell’ambito di controversie relative al rifiuto di clienti di pagare le prestazioni giudiziali di avvocati in base alle tariffe.

In sostanza i giudici italiani chiedono se gli artt. 10, 81 e 82 Tratt. CE ostino all’adozione di un provvedimento normativo che approvi, sulla base di un progetto elaborato da un ordine professionale forense, quale è appunto il C.n.f., una tariffa che fissi un minimo per gli onorari di avvocato, a cui non è possibile derogare in via di principio, né per le prestazioni riservate agli avvocati, né per quelle stragiudiziali, che possono essere svolte anche da altri operatori economici non vincolati da tale tariffa. La Corte di Giustizia ripercorre, nella sentenza in esame, un iter logico-giuridico assai simile a quello svolto per il caso Arduino. Essa, prendendo in considerazione il procedimento di approvazione della tariffa – nel quale il C.n.f. svolge un ruolo sussidiario, limitandosi ad elaborare un progetto di tariffa privo di efficacia vincolante, che deve essere approvato dal Ministro della giustizia, con la collaborazione del Consiglio di Stato e del C.i.p. – arriva ad escludere che lo Stato italiano abbia delegato ad avvocati la responsabilità di adottare delle decisioni in materia economica (punto 48). Tale convinzione è confermata dalla previsione contenuta nella normativa interna [121], secondo la quale i giudici possono, nel liquidare gli onorari, derogare anche i limiti, minimi e massimi, fissati dalla tariffa forense.

Il giudice comunitario conferma così, senza particolari elementi di novità rispetto alla precedente giurisprudenza, il proprio indirizzo, circa la compatibilità del sistema dei minimi tariffari inderogabili con il principio comunitario del divieto di intese restrittive della concorrenza.

Certamente più interessante è l’altra questione della quale la Corte è stata investita, ossia valutare la compatibilità tra la disciplina nazionale che vieta di derogare convenzionalmente gli onorari minimi fissati ai sensi del r.d.l. n. 1578/1933 non con le regole della concorrenza, ma con il principio della libera prestazione dei servizi tra Stati membri, di cui all’art. 49 (ora art. 56 Tfue) Tratt. CE.

Nel caso in esame i giudici hanno rilevato che la normativa che vieta di derogare i minimi tariffari «può rendere più difficile l’accesso degli avvocati stabiliti in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana al mercato italiano dei servizi legali», ed è in grado, quindi di «ostacolare l’esercizio della loro attività di prestazione di servizi in quest’ultimo Stato membro» (punto 58). Nel contempo il divieto preclude agli avvocati comunitari la possibilità di effettuare una concorrenza più efficace, attraverso la richiesta di onorari inferiori ai minimi tariffari, nei confronti degli avvocati stabiliti, nonché limita la scelta dei destinatari dei servizi in Italia, poiché questi ultimi non possono ricorrere ai servizi di avvocati stabiliti in altri Stati membri che potrebbero offrire in Italia le loro prestazioni ad un prezzo inferiore ai minimi tariffari.

La Corte di Giustizia sembra, in un primo momento, attestarsi dunque, su una posizione rigida, che viene smentita da un approccio più soft, il quale mira a contemperare la libertà di prestazione di servizi con il principio di proporzionalità ed adeguatezza [122]. In particolare i giudici sottolineano che il divieto di derogare i minimi tariffari è illegittimo, ma può essere giustificato «qualora risponda a ragioni imperative di interesse pubblico e purché sia idoneo a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non vada oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo» (punto 61).

Tra i motivi imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione alla libera prestazione dei servizi figurano le esigenze di tutela dei consumatori – in particolare dei destinatari dei servizi giudiziali forniti da professionisti operanti nel settore della giustizia –, e della buona amministrazione della giustizia, sempreché il provvedimento nazionale sia in grado di garantire la realizzazione degli obiettivi perseguiti e non vada oltre quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi medesimi.

In ultimo la Corte di Giustizia rimanda al giudice nazionale il compito di determinare, nel caso concreto, se la restrizione della libera prestazione di servizi creata dalla normativa nazionale rispetti le suindicate condizioni. Egli dovrà quindi verificare «se vi sia una relazione tra il livello degli onorari e la qualità delle prestazioni fornite dagli avvocati e se, in particolare, la determinazione di tali onorari minimi costituisca un provvedimento adeguato per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti, vale a dire la tutela dei consumatori e la buona amministrazione della giustizia» (punto 66), tenendo altresì conto che in questo settore esiste una evidente asimmetria informativa tra i clienti-consumatori e gli avvocati.

Ad avviso della Corte, il giudice del merito dovrà altresì verificare se le altre norme professionali relative agli avvocati, in particolare le norme di organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità siano di per sé sufficienti per raggiungere gli obiettivi della tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia.

In conclusione una normativa che vieti di derogare ai minimi fissati da una tariffa forense contrasta con l’art. 49 Tratt. CE, poiché configura una restrizione della libera prestazione dei servizi. In ogni caso spetta al giudice del rinvio verificare se tale divieto risponda ad esigenze di protezione dei consumatori, in quanto destinatari dei servizi legali, e della buona amministrazione della giustizia, e se tali restrizioni risultino proporzionate rispetto agli obiettivi da raggiungere.

Nel complesso la pronuncia contiene alcune considerazioni «pregevoli per lungimiranza e per attenzione alle peculiarità della realtà economico-sociale del singolo Stato membro» [123].

Di particolare rilievo risulta la scelta di rinviare ai singoli giudici nazionali, la verifica di proporzionalità delle misure di deroga al principio della concorrenza, sebbene non si tratti di un rinvio tout court, ma con precise indicazioni sul quadro di interessi da tener presente nella valutazione (si pensi al riferimento alle peculiarità del contesto in cui opera il professionista e dei servizi stessi, punto 68). Sennonché tale previsione può ingenerare il rischio che vengano adottate, dai singoli giudici, decisioni contrastanti (soprattutto in quei sistemi giuridici ove non è prevista la vincolatività del precedente giudiziario). Questo ipotetico contesto di incertezza nei mercati professionali potrà essere risolto da un intervento del legislatore nazionale, il quale non potrà più ricorrere al semplice principio comunitario della libera concorrenza, ma dovrà valutare la reale incidenza dei provvedimenti restrittivi di essa rispetto alla tutela degli interessi dei singoli (Togna 2007, 24-25).

6.2. La pubblicità

Tra le norme generalmente previste nei codici deontologici – i quali contengono le regole atte a disciplina l’attività nell’esercizio della professione [124] - –, particolare rilevanza assume quella relativa al divieto o alla limitazione della possibilità per il professionista di farsi pubblicità, la quale si configura come una vistosa limitazione della concorrenza, precludendo ai professionisti la possibilità di utilizzare uno degli strumenti usuali di concorrenza[125].

La compatibilità delle norme deontologiche in materia di pubblicità comparativa è stata oggetto della decisione 1999/267/CE della Commissione europea del 7.4.1999, con la quale l’istituzione comunitaria ha assunto posizione nel caso riguardante il codice di condotta dell’Istituto dei Mandatari abilitati (I.m.a.), un ordine professionale che raggruppa, a livello europeo, tutti i mandatari abilitati presso l’ufficio europeo dei brevetti di Monaco, in relazione all’applicazione dell’art. 81 Tratt. CE. In tale codice, secondo la Commissione, erano contenute disposizioni restrittive che impedivano ai membri dell’associazione di fare pubblicità comparativa e di offrire attivamente servizi agli utilizzatori che erano già stati clienti di un altro mandatario. L’I.m.a. ha quindi proposto ricorso contro la decisione della Commissione, ma il Tribunale di prima istanza lo ha respinto [126], accettando, tuttavia alcune argomentazioni portate dal ricorrente e annullando parte della decisione.

In particolare il giudice comunitario ha affermato che la qualificazione delle regole imposte dall’ordine nazionale ai propri iscritti quali regole di deontologia professionale non rappresenta un valido motivo per escludere a priori l’applicazione ad esse del diritto comunitario della concorrenza, ed in particolare dell’art. 81 Tratt. CE. Tale esclusione, secondo il Tribunale, potrà avvenire attraverso un esame caso per caso, che permetta di valutare la validità di una norma deontologica rispetto al Trattato, in particolare tenendo conto del «suo impatto sulla libertà di azione dei membri della professione e sull’organizzazione di questa, nonché sugli utenti dei servizi in questione» (punto 65). Oppure si dovrà verificare se vi sono altre norme comunitarie che prevedano espressamente la sottrazione alle norme di concorrenza di attività economiche.

Nel caso dell’I.m.a., i giudici non hanno rinvenuto né previsioni esplicite di esclusione; neppure l’art. 7.5., direttiva 97/55/CE, relativa alla disciplina della pubblicità comparativa non ingannevole – la quale stabilisce che gli Stati membri, nel rispetto delle disposizioni del trattato, possono mantenere o introdurre divieti o limitazioni dell’uso della pubblicità comparativa riguardante servizi professionali, imposti direttamente o da un ente o un’organizzazione incaricati, a norma della legislazione degli Stati membri, e disciplinare l’esercizio di un’attività professionale – è tale da consentire il divieto di pubblicità comparativa; né condizioni che possano giustificare una deroga, in quanto manca una «dimostrazione del fatto che il divieto assoluto di pubblicità comparativa è oggettivamente necessario per salvaguardare la dignità e la deontologia della professione in questione» (punto 78).

Oggi l’art. 24 della direttiva relativa ai servizi nel mercato interno (direttiva 2006/123/CE) stabilisce espressamente che gli Stati membri sopprimano tutti i divieti totali in materia di comunicazioni commerciali per le professioni regolamentate e dispone altresì che essi vigilino affinché siano garantite l’indipendenza, la dignità e l’integrità delle professioni, nonché il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione.

6.3. L’esercizio in forma integrata della professione

L’obbligo di seguire modalità predefinite di esercizio della professione – incluse in regolamentazioni deontologiche o legislative – può comportare restrizioni alla concorrenza, sia che esse riguardino soggetti appartenenti alla stessa professione, sia che facciano riferimento alla possibilità di questi di collaborare con professionisti di settori diversi.

Di quest’ultimo profilo si è occupata la giurisprudenza comunitaria nella causa Wouters [127], ove veniva in rilievo il divieto posto dall’ordine degli avvocati dei Paesi Bassi di istituire forme di collaborazione integrata tra avvocati e revisori dei conti.

Tralasciando il profilo dell’identificazione degli avvocati olandesi come imprese e dell’ordine forense olandese come associazione di imprese [128], i giudici di Lussemburgo arrivano ad affermare la legittimità della normativa nazionale, ma dopo un attento esame [129]. La Corte di Giustizia dimostra anzitutto che la limitazione alla costituzione delle società integrate costituisce una restrizione alla concorrenza (v. in particolare i punti 88, 93, 94), della quale valuta poi l’ammissibilità.

I giudici osservano che non ogni accordo tra imprese o ogni decisione di associazione di imprese, che restringa la libertà d’azione delle parti o di una di esse, ricade necessariamente sotto il divieto sancito dall’art. 81 Tratt. CE (art. 101 Tfue). Ai fini dell’applicazione di questa disposizione, occorre tener conto, per la Corte, del contesto globale in cui la decisione dell’associazione di imprese di cui trattasi è stata adottata o spiega i suoi effetti, e dei suoi obiettivi; nel caso Wouters, questi ultimi sono connessi alla necessità di realizzare norme in tema di organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità che «forniscano la necessaria garanzia di integrità ed esperienza ai consumatori finali dei servizi legali e alla buona amministrazione della giustizia» (punto 97). Al riguardo, si ritiene che, secondo le concezioni vigenti nei Paesi Bassi, le regole essenziali per garantire il corretto esercizio della professione forense sono, in particolare, il dovere di difendere il proprio cliente, in piena indipendenza e nell’interesse esclusivo di quest’ultimo, quello di evitare qualunque rischio di conflitto di interesse, nonché il dovere di rispettare un rigoroso segreto professionale.

Secondo la Corte, la professione dei revisori dei conti non è invece soggetta, in generale e più in particolare nei Paesi Bassi, ad obblighi deontologici analoghi a quelli dell’avvocato; l’obbligo di confidenzialità previsto per la professione forense, per esempio, non trova riscontro nelle regole previste per i revisori.

La possibilità di creare società integrate tra appartenenti a queste due professioni potrebbe causare quindi, secondo la Corte di Giustizia, una violazione di doveri – tra cui quello di segreto professionale (v. punto 105) –, il cui mantenimento costituisce un carattere indefettibile della professione di avvocato.

Alla luce di tali constatazioni la Corte ha concluso che la restrizione alla concorrenza operata dalla disposizione che vieta le società multiprofessionali (come pure la restrizione alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione di servizi) trova giustificazione nell’obiettivo di assicurare il buon esercizio della professione di avvocato (punto 107), ed in particolare il rispetto della deontologia forense.

Ad avviso dei giudici comunitari, nell’adottare il regolamento, l’Ordine olandese degli avvocati ha potuto ragionevolmente ritenere che esso risultasse necessario al buon esercizio della professione di avvocato, così come essa è organizzata nello Stato membro interessato.

La sentenza Wouters dunque, in linea con la pronuncia Arduino – emessa peraltro lo stesso giorno – «salva» la normativa nazionale, ma attraverso un ragionamento molto più articolato rispetto a quello svolto dai giudici in materia di tariffe professionali. Sennonché la dottrina ha rilevato comunque aspetti di opinabilità nella decisione, soprattutto con riferimento al mancato incisivo riferimento, nelle argomentazioni, alla «necessità di tutelare da un lato il consumatore inconsapevole, dall’altro la dignità e indipendenza della professione legale e la qualità dei servizi offerti» [130].

Da precisare, infine, che la “soluzione Wouters” si applica solo al caso di specie, ossia agli avvocati olandesi; la giustificazione, quindi, potrebbe non essere configurabile in un altro paese ove l’organizzazione e l’esercizio della professione fossero diverse, ovvero l’associazione riguardasse professionisti diversi dai revisori dei conti [131].

Delle attività multidisciplinari per le professioni regolamentate si occupa altresì la direttiva sui servizi interni, la quale adotta un «approccio gradualistico» [132], ammettendo che ai professionisti possano essere imposti requisiti che li obblighino ad esercitare esclusivamente una determinata attività specifica o che limitino l’esercizio, congiunto o in associazione, di attività diverse, «nella misura in cui ciò sia giustificato per garantire il rispetto di norme di deontologia diverse in ragione della specificità di ciascuna professione, di cui è necessario garantire l’indipendenza e l’imparzialità» (art. 25.1 lett. a), direttiva 2006/123/CE).

6.4. Le prospettive del sistema italiano

Il problema dell’applicazione dei principi della concorrenza al settore delle professioni liberali non è sconosciuto all’ordinamento italiano. Già nel 1997 l’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato esponeva i risultati di una indagine conoscitiva, svolta nel settore degli ordini e collegi professionali, finalizzata a verificare fino a che punto la allora vigente regolamentazione del settore era effettivamente funzionale allo sviluppo delle attività professionali [133]. A conclusione dell’indagine si rilevava il carattere particolarmente restrittivo della regolamentazione delle professioni rispetto a quella vigente nei principali paesi europei. In particolare l’Autorità garante evidenziava la sussistenza, nei sistemi di accesso alle professioni regolamentate e alle attività riservate, di un certo numero di limitazioni alla concorrenza [134] e sottolineava altresì l’esigenza di un ripensamento complessivo e profondo delle istituzioni «ordini professionali», le cui funzioni, almeno in parte, erano ritenute non necessarie né proporzionali rispetto al conseguimento degli obiettivi di natura pubblica.

Nonostante abbia riscontrato nella disciplina delle professioni lesioni alla concorrenza, l’Autorità garante non ha proceduto all’avvio di procedimenti sanzionatori nei confronti degli ordini professionali, né essi hanno tempestivamente provveduto ad eliminare le infrazioni contestate.

L’Indagine ha comunque avuto l’effetto di dischiudere la questione ed incentivare il legislatore a intervenire sulla situazione degli ordini professionali. Sotto questo ultimo profilo, numerose sono state le proposte ed i disegni di legge [135], volti a modernizzare e liberalizzare il settore delle professioni, rimasti però senza esito sino all’adozione del c.d. decreto Bersani 4.7.2006, n. 223, convertito nella l. 4.8.2006, n. 248, che, all’art. 2, fissa una serie di disposizioni urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali [136]. La legge incide su alcuni aspetti anticoncorrenziali della normativa relativa alle professioni, senza occuparsi però delle modalità di accesso alle stesse.

Le misure adottate dal legislatore consistono nella abolizione dei minimi tariffari, nella abolizione del divieto di svolgere pubblicità informativa – la quale dovrà svolgersi secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine professionale – e nella abolizione altresì del divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti (fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo). È stato infine previsto l’obbligo della forma scritta per i patti conclusi fra gli avvocati e i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali.

Il legislatore italiano, dunque, con alcuni commi di un articolo inserito in un decreto legge, è intervenuto sulla disciplina di importanti e delicati problemi del settore delle professioni in genere, quali i minimi tariffari, la pubblicità e le forme associative. Sennonché sorgono alcuni dubbi sulla opportunità dell’intervento, che rappresenta la cornice entro la quale, è prevedibile, si costruirà una riforma organica delle professioni.

Quanto all’abolizione del divieto di costituire società interdisciplinari tra professionisti, oltre alle critiche che si scatenano sull’accusa che la previsione legislativa favorirebbe ingressi di soci di mero capitale anche negli studi legali, si rileva il mancato coordinamento di essa con le regole dettate in tema di società tra avvocati, di cui al d.lgs. 2.2.2001, n. 96 (sul quale v. supra, § 5.4.).

Con riguardo invece, alle tariffe [137], il legislatore sancisce l’eliminazione dell’obbligatorietà delle fisse o minime – in conformità con il principio comunitario di libera concorrenza e di libertà di circolazione delle persone –, mentre mantiene le eventuali tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti (art. 2, 2° c., d.l. n. 223/2006). Tuttavia non vi è traccia di tutte le problematiche ulteriori proprie del sistema tariffario forense [138], che sono state ben riassunte nelle pronunce della Corte di Giustizia.

La questione delle tariffe forensi italiane non ha comunque perso d’importanza dopo il decreto Bersani. Da un lato, infatti, con ordinanza 13.1-31.5.2007, n. 2814 [139], il Consiglio di Stato ha investito, ancora una volta, la Corte di Giustizia, di una questione pregiudiziale relativa alle tariffe forensi italiane [140]. Oltre sul quesito “classico” sulla legittimità di minimi tariffari inderogabili, in rapporto agli artt. 10 e 81 Tratt. CE, in materia di accordi restrittivi della concorrenza, alla Corte di Giustizia viene chiesto di pronunciarsi sul profilo dell’inderogabilità delle tariffe per il giudice che debba liquidare le spese di soccombenza.

Dall’altro la Commissione ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, inizialmente basata sulla previsione di una tariffa fissa per le attività stragiudiziali degli avvocati come limite non proporzionato alla libera prestazione dei servizi, ma che poi, nel marzo del 2007, è stata meglio definita relativamente alle persistenza delle sole tariffe massime (con l’esclusione delle materie del diritto di famiglia e del diritto penale) e per il fatto che la normativa italiana non permetterebbe di remunerare adeguatamente, in sede di giudizio, i costi sostenuti da un avvocato straniero.

Nel periodo successivo all’emanazione del decreto Bersani, alcuni organismi rappresentativi dei professionisti hanno però assunto decisioni volte ad interpretare in senso restrittivo le disposizioni sulle professioni in esso contenute.

Questo contesto di incertezza e di ostruzionismo da parte degli organismi professionali ha indotto l’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato a verificare, attraverso una nuova indagine conoscitiva, lo stato di adeguamento ai principi di concorrenza delle disposizioni di natura deontologica e pattizia. Il Garante ha deciso di soffermarsi, in particolare, sugli ordini e i collegi rappresentativi delle professioni di architetto, avvocato, commercialista e ragioniere, consulente del lavoro, farmacista, geologo, geometra, giornalista e pubblicista, ingegnere, medico e odontoiatra, notaio, perito industriale e psicologo (l’Indagine conoscitiva riguardante il settore degli ordini professionali è stata aperta il 18 gennaio 2007).

Da rilevare, infine, che le nuove disposizioni sulle professioni vanno ad integrare le norme contenute nel d.lgs. 2.2.2006, n. 30 (emanato in attuazione della delega di cui alla l. 3.6.2003, n. 131), il quale – nell’ambito della riforma del titolo V della II parte della Costituzione in virtù della quale le professioni sono state inserite nella liste delle materie a legislazione concorrente – individua i principi fondamentali in materia di professioni che si desumono dalla legislazione statale vigente, su cui le regioni potranno costruire le discipline diverse.

I principi fondamentali cui le regioni si devono attenere sono raggruppati in quattro filoni – la libertà professionale (art. 2), la tutela della concorrenza e del mercato (art. 3), l’accesso alle professioni (art. 4) e la regolazione delle attività professionali (art. 5) – e per ognuno di essi vengono individuati gli essenziali punti di riferimento [141]. Di sicuro rilievo è la previsione per cui l’attività professionale esercitata in forma di lavoro autonomo è equiparata all’attività di impresa i fini della concorrenza di cui agli artt. 81, 82 e 86 Tratt. CE. Con ciò il legislatore italiano ha aderito appieno ad un consolidato orientamento comunitario (v. supra, § 6.), già da tempo avvalorato anche dall’Autorità garante della concorrenza [142].

 


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