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Autori: Mauro Dallacasa (Giudice del Tribunale di Bologna) | ||
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Riferimenti:
Keyword:Diritto del lavoro-Fallimento ed altre procedure concorsuali |
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Riforma della legge fallimentare e rapporti di lavoro
1. Premessa: il fallimento è un’esecuzione forzata. Il fallimento è una forma di esecuzione che si affianca a quelle individuali, differenziandosene proprio per la sua natura concorsuale. La concorsualità caratterizza il fallimento sia dal lato dei creditori coinvolti che da quello del patrimonio del fallito. L’esecuzione individuale è sempre promossa da creditori singoli, in relazione a specifici titoli creditori, e comporta l’espropriazione di beni altrettanto individuati; essa pertanto non esclude mai che possano esservi altri creditori, che non intendono promuovere l’esecuzione forzata dei propri crediti, o anche non possono promuoverla, per il caso che difettino di titolo, o il credito non sia ancora liquido ed esigibile, e non esclude che il patrimonio del debitore sia più ampio di quello assoggettato all’esecuzione. Nel fallimento invece il debitore è spossessato di tutto il suo patrimonio, e tutti i creditori, se vogliono soddisfarsi sui beni del debitore, devono partecipare al concorso. Questo è quanto si ricava dall’art. 52 (il fallimento apre il concorso del creditore sui beni del fallito) con il corollario dell’improcedibilità, dalla dichiarazione di fallimento, ed anche per i crediti in prededuzione, di azioni esecutive e cautelari (art. 51). Il fatto che i creditori del fallito possano essere sprovvisti di un titolo rende necessario un procedimento di cognizione dei crediti, e rende necessario che ogni creditore proponga agli organi del fallimento una domanda diretta a vedere accertato il proprio credito. L’ultimo comma dell’art. 96 ci avverte che il provvedimento con cui il credito è accertato, cioè è ammesso al passivo fallimentare, non produce l’effetto del giudicato, non ha quindi effetti al di fuori del fallimento, ma produce solo una preclusione endofallimentare, comporta cioè che, una volta che il provvedimento sia definitivo, non possa essere più discussa nel fallimento l’esistenza del credito, la sua entità e le cause di prelazione che l’assistono. L’unicità del procedimento di accertamento dei crediti comporta anche che non possano esservi nei confronti del fallimento pronunce di condanna. Del resto, essendo il fallimento un’esecuzione forzata, ed essendo la pronuncia di condanna una pronuncia tipicamente diretta ad introdurre un’esecuzione forzata individuale, ne sarebbe leso proprio il carattere concorsuale della procedura fallimentare. Con l’ulteriore corollario che nemmeno le pronunce di mero accertamento sono ammissibili nei confronti del fallimento, quando l’accertamento sia sorretto dall’unico interesse a far valere il credito nel concorso fallimentare. Il principio della esclusività dell’accertamento concorsuale dei crediti è oggi affermato dall’art. 52 in maniera ancora più estesa che in passato, perché esso riguarda non più i soli crediti, ma qualunque diritto reale o personale, anche di natura immobiliare.
2. Gli effetti del fallimento sulle cause di lavoro. Una questione da sempre controversa è quella relativa alla sorte delle cause di lavoro. Il problema nasce dal fatto che il fallimento non comporta la risoluzione automatica del rapporto di lavoro; per sciogliersi da esso è sempre necessaria una manifestazione di volontà del curatore e, quel che più importa, nel caso in cui l’attività di impresa prosegua anche oltre il fallimento, può darsi che prosegua anche il rapporto di lavoro. E quindi l’accertamento del rapporto di lavoro, o di una sua modalità di svolgimento, o di un vizio originario del contratto, possono avere rilevanza non solo al fine dell’accertamento di un credito da ammettere al passivo, ma anche in funzione della prosecuzione del rapporto oltre il fallimento. Questa la ragione fondamentale della sopravvivenza eccezionale di una competenza del giudice del lavoro a conoscere delle cause relative al rapporto (licenziamenti, nullità dei termini, accertamento di un rapporto di lavoro subordinato, qualifica e funzioni).
3. Gli artt. 52 e 24 l.f.: regole di procedura e regole di competenza. Resta invece avocato al concorso l’accertamento del credito da lavoro. Va precisato che l’art. 52, che stabilisce questa regola, è innanzitutto una norma sulla procedura e solo subordinatamente una norma sulla competenza. Essa cioè ci dice come devono essere accertati i crediti, e quindi preclude ai creditori le forme ordinarie di accertamento, e solo subordinatamente vincola la competenza, perchè non può esservi concorso se non c’è un unico organo giudiziario chiamato ad accertare i crediti verso il fallito.
4. Le cause fallimentari. L’art. 24 invece detta un regola più generale sulla competenza, che si riferisce a tutte le cause che derivano dal fallimento. Per “cause che derivano dal fallimento” si intendono le cause che spettano al curatore e, prima del fallimento, non sarebbero spettate a terzi, e quelle che, pur esistendo anche prima del fallimento, subiscono una deviazione dal loro schema tipico. (es: azioni revocatorie, azioni in cui si controverta del diritto del curatore a sciogliersi da un contratto). L’art. 24, 2° c., che prevedeva che per tali cause si applicasse il rito dei procedimenti in camera di consiglio, è stato abrogato, e quindi è venuto meno il dubbio se tale rito dovesse applicarsi anche alle cause di lavoro che rientrano nella nozione dell’art. 24 (salvo i problemi di diritto intertemporale, che possono sopravvivere). In ogni caso oggi l’art. 24 non contiene più alcuna regola sulla procedura. Ci si domanda: esistono cause di lavoro che “derivano dal fallimento” nel senso indicato dall’art. 24? A me sembra che tali siano le cause che sorgono dall’esercizio provvisorio, o cause che derivano dall’esercizio del potere del curatore di sciogliersi dal contratto (art. 72 l.f.). L’art. 104, all’ultimo comma, aggiunge un’ipotesi ulteriore, per il caso dei rapporti pendenti al momento della retrocessione dell’azienda. Vedremo poi che problemi si pongo in ordine alla applicabilità al fallimento della disciplina sui licenziamenti collettivi; nella misura in cui si riterrà che tale disciplina valga anche per il fallimento, cioè per il curatore che procede a più di cinque licenziamenti, anche da tale eventualità possono sorgere controversie che rientreranno nella competenza dell’art. 24.
5. Il Tribunale e la sezione fallimentare: questioni di competenza. La competenza stabilita dall’art. 24 riguarda il Tribunale fallimentare, non ovviamente la sezione tabellarmente investita delle cause fallimentari. Questa considerazione ovvia può oggi fare sorgere qualche dubbio in punto di connessione di cause, perché in materia di impugnazioni avverso il decreto del giudice delegato di esecutività dello stato passivo, prevede una competenza collegiale, ma esclude che il giudice delegato possa fare parte del collegio (mentre prima l’art. 98 incardinava l’opposizione avanti il giudice delegato in funzione di istruttore). Cosa succede quando, ad esempio, un lavoratore abbia proposto opposizione al decreto che rigettava l’ammissione del proprio credito e il fallimento, davanti al giudice del lavoro, abbia proposto ricorso per il risarcimento di danni cagionati dal lavoratore durante lo svolgimento della prestazione lavorativa? Se si ritiene che la competenza collegiale a decidere sull’opposizione sia immodificabile, ci troviamo di fronte a due riti vincolanti, quella di lavoro da un lato, e quella dell’art. 99 l.f. dall’altra, e le due cause non potranno riunirsi. Se si ritiene che la competenza collegiale sia sacrificabile, vale l’art. 40, 3° c., con prevalenza del rito del lavoro (nell’esperienza del rito del lavoro un problema simile sorge nel caso in cui sia proposta querela di falso); l’effetto, un po’ bizzarro, sarebbe quello che a decidere sull’ammissione allo stato passivo sarebbe un giudice che applica un rito diverso da quello endofallimentare; il ché credo farà prevalere la prima opzione.
6. L’art. 72 l.f.: la quiescenza del rapporto... Abbiamo già detto che, ai sensi dell’art. 2119 c.c., il fallimento non determina automaticamente la risoluzione del rapporto di lavoro; ed aggiungiamo che il licenziamento richiede la forma scritta, quindi la chiusura dell’azienda prima del fallimento non vale come licenziamento. il rapporto, per effetto del fallimento, entra in uno stato di quiescenza, che può essere sciolto dal curatore, con la decisione di subentrare nel contratto o di recedere. Proprio questa condizione di quiescenza spiega perchè, dichiarato il fallimento, non maturano automaticamente ulteriori retribuzioni a carico del fallito. Il lavoratore può mettere in mora il curatore, chiedendo che decida. Trascorso il termine assegnato dal giudice, il rapporto si intende risolto. Il criterio di giudizio della legittimità del recesso del curatore è lo stesso della legge comune. Se il curatore scioglie la riserva nel senso del recesso, è dovuta l’indennità di preavviso. Prima della riforma, la diffusa opinione che essa dovesse essere ammessa al passivo in privilegio poteva trovare un fondamento nella dizione dell’art. 111 previgente, che riconosceva la prededuzione solo per i debiti “contratti per l’amministrazione del fallimento e per la continuazione dell’esercizio provvisorio”; oggi anche la categoria dei crediti prededucibili è stata ampliata, perché essa comprende (art. 111 n. 3) tutti i crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali e a me sembra che la collocazione dell’indennità di preavviso sorta per effetto di licenziamento ad opera del curatore possa essere rimeditata alla luce della nuova formulazione legislativa.
7. …lo scioglimento ad opera del curatore... L’art. 72, terzo comma, con una modifica introdotta col correttivo, stabilisce che lo scioglimento del contratto ad opera del curatore non da diritto a risarcimento del danno. Con riguardo al rapporto di lavoro questa previsione fa sorgere dei problemi, per i casi in cui quella risoluzione dovesse reputarsi illegittima secondo la legge comune, perché sia l’art. 18 st. lav., sia l’art. 8 l. 604/66 qualificano le indennità dovute come risarcimento del danno. Innanzitutto è pur vero che la stessa disposizione riconosce in ogni caso il diritto al “credito per il mancato adempimento”. Ma a me pare che la ratio della disposizione abbia riguardo ai casi in cui ci sia una discrasia, in punto di diritto al recesso, tra la regola di diritto comune e quella fallimentare, quando cioè il curatore eserciti legittimamente la facoltà di recedere, e tuttavia quella facoltà non sarebbe spettata all’imprenditore in bonis; è per questi casi che la legge esenta il fallimento da responsabilità risarcitorie che invece sarebbero spettate a chi, allo stesso modo, si fosse reso inadempiente fuori dal fallimento. Nel caso dei rapporti di lavoro, il curatore che licenzia perché l’impresa non può più essere utilmente proseguita è certamente nel suo pieno diritto, e pertanto nulla deve al lavoratore licenziato; ma se l’impresa prosegue e il licenziamento risulta ingiustificato secondo la legge comune, a me pare che non ci sia modo di sottrarre anche il fallimento alla piena responsabilità.
8. … e il suo subingresso. Viceversa il nuovo art. 74 introduce un principio rivoluzionario, che vale per tutti i contratti di durata, e quindi anche per quelli di lavoro, perché, se il curatore subentra, allora deve pagare integralmente il prezzo dei servizi già erogati, quindi i crediti maturati prima del fallimento sono trasformati in crediti prededuttivi. Come detto, se quindi il rapporto continua con il curatore, o se si contesta il recesso dello stesso, le cause che ne possono derivare rientrano nella regola di competenza stabilita dall’art. 24, quindi si deroga alla competenza, nel senso che, ad esempio, per i fallimenti dichiarati a Bologna è competente il Tribunale di Bologna, ma non si incide in alcun modo sulla procedura da applicare, che resta quella di lavoro. Però il giudice del lavoro non può esprimersi sui crediti, nemmeno quelli in prededuzione, per affermare i quali è necessaria l’ammissione al passivo.
9. Le conseguenze patrimoniali del licenziamento. Nel caso poi venga accertata l’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro prima del licenziamento, non potrà essere chiesta l’ammissione al passivo delle quindici mensilità sostitutive alla reintegra, perchè il rapporto di lavoro resta quiescente nei confronti del curatore, quindi non c’è un diritto alla reintegra del lavoratore nei confronti del fallimento e quindi non c’è nemmeno quello di pretendere l’obbligazione alternativa. Viceversa se fosse illegittimo il licenziamento intimato dal curatore, ad esempio perchè è stato disposto l’esercizio provvisorio e il posto di lavoro non è stato soppresso, sarà dovuta la reintegra, e pertanto il lavoratore può scegliere per l’ammissione al passivo in preduzione del proprio credito di quindici mensilità.
10. Conclusioni. Dove sta la discrasia di questo sistema: sta nel fatto che, rimettendo al giudice del lavoro l’accertamento dell’an del rapporto, ad esempio della illegittimità del licenziamento, si vincola poi il giudice delegato al riconoscimento del credito retributivo che ne deriva; di modo che l’accertamento concorsuale è salvato più dal punto di vista formale che sostanziale. Il correttivo per evitare tale conseguenza sta nel precisare che la competenza del giudice di lavoro sopravvive solo dove vi è un interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto, e non dove il contenuto di accertamento della domanda è solo strumentale all’affermazione dei crediti. Questo interesse deve essere allegato, e cioè devono essere dichiarate in ricorso le circostanze di fatto che fanno ritenere plausibile che l’azienda, o una sua parte, mantenga, anche dopo il fallimento, una sua efficienza produttiva, e quindi consenta la prosecuzione dei rapporti di lavoro esistenti, o di una parte di essi. Esso deve essere altresì attuale e concreto, ed oggi ritengo debba essere desunto dal programma di liquidazione predisposto dal curatore Mette conto infine ricordare che le revocatorie dei crediti di lavoro oggi sono escluse dall’art. 67 lett f.
11. Affitto di azienda ed esercizio provvisorio. Come già accennato l’art. 104 l.f. prevede oggi espressamente la possibilità dell’affitto dell’azienda, come alternativa all’esercizio provvisorio. Entrambe le opzioni attengono alla fase dell’amministrazione dei beni del fallito, piuttosto che a quella della liquidazione. Anche se da esse può derivare un utile per il fallimento, lo scopo essenziale è quello di conservazione del compendio aziendale, in vista della vendita successiva: è ovvio dunque che sia l’affitto che l’esercizio provvisorio devono soddisfare ad un requisito di economicità, nel senso che non devono quantomeno depauperare l’attivo fallimentare. La finalità dunque è sempre conservativa, non è mai il risanamento, o la ristrutturazione dell’azienda. I rischi sono diversi, perché nell’esercizio provvisorio il rischio che incombe sulla curatela è un vero e proprio rischio di impresa, e si esprime nella collocazione in prededuzione dei crediti che sorgono da esso; nel caso dell’affitto, il rischio della curatela è costituito da comportamenti di inadempienza dell’affittuario alle obbligazioni che derivano dal contratto di affitto, e quindi innanzitutto le obbligazioni stabilite dall’art. 2561 c.c., che riguarda l’usufrutto dell’azienda, ma che si applica anche all’affitto: l’affittuario deve quindi esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue, non deve modificarne la destinazione, deve conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti, e la normale dotazione delle scorte, con l’ulteriore appendice che la differenza della consistenza di esse all’inizio o alla fine dell’affitto è regolata in denaro, il ché può far sorgere o un debito prededuttivo della procedura, o un credito verso l’affittuario cessato. L’importanza degli obblighi posti a carico dell’affittuario si apprezza quando si considerino le conseguenze che possono derivare dalla loro violazione, in particolare per quanto riguarda la dispersione dei beni dell’azienda, e tra essi assume preminente rilievo la sottrazione dell’avviamento, quando l’affittuario sia un imprenditore del medesimo settore merceologico dell’impresa fallita. Vanno poi considerati gli ulteriori obblighi di pagamento dell’affitto, di adeguata manutenzione dei beni, di riconsegna dell’azienda nel caso di cessazione dell’affitto.
12. I criteri di scelta dell’affittuario. Ha comunque un rilievo di principio il fatto che l’art. 104 bis, con una norma che però non è riprodotta per la vendita, stabilisca che la scelta dell’affittuario debba avvenire oltre che sulla base dell’ammontare del canone offerto, anche sulla base delle garanzie date e dell’affidamento dell’affittuario, oltre che “avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali”. La legge dà quindi positivo riconoscimento, seppur limitatamente all’affitto d’azienda, al mantenimento dei posti di lavoro, come interesse rilevante in sé, che si affianca a quello dei creditori. Anche se in fatto è difficile che questi due interessi si contrappongano, perché il mantenimento in essere dell’impresa è normalmente anche nell’interesse dei creditori, è significativo, almeno in linea di principio, che la legge riconosca espressamente l’interesse dei lavoratori come in sé meritevole di tutela.
13. La retrocessione dell’azienda al fallimento. Per quanto riguardava invece la sorte dei debiti e dei contratti in essere al momento della retrocessione, in precedenza, in assenza di disposizioni della legge fallimentare, si applicavano le regole comuni. Quindi, per i debiti, poiché all’affitto non si applica l’art. 2560 c.c. (che riguarda solo l’alienazione dell’azienda), doveva ritenersi per analogia che essi non passassero in carico alla curatela al momento della cessazione dell’affitto, con la sola eccezione però dei debiti da lavoro dipendente, ex art. 2112 c.c. Oggi invece l’art. 104 bis esenta il fallimento da tale effetto, derogando quindi all’art. 2112. L’ultimo comma dell’art. 104 bis a me pare sia dunque non corretto quando afferma che l’irresponsabilità del fallimento, nel caso di retrocessione dell’azienda, costituisce deroga a quanto previsto dagli artt. 2112 e 2560 c.c., perché la dizione corretta avrebbe dovuto essere “in deroga all’art. 2112 e conformemente a quanto prevede l’art. 2560”. Per quanto riguarda invece i contratti stipulati dall’affittuario, essi si trasferivano alla curatela, alle condizioni stabilite dall’art. 2558 c.c., che è applicabile anche al caso dell’affitto. Quindi, in primo luogo, il trasferimento era un effetto naturale del contratto, e cioè si verificava se non era pattuito diversamente; il ché rendeva opportuno una pattuizione in tal senso nel contratto di affitto stipulato dal fallimento; vi era poi sempre l’eccezione positiva dei rapporti di lavoro in essere. Oggi invece l’art. 104 bis stabilisce che ai contratti in corso si applica la disciplina dei rapporti pendenti al momento del fallimento; quindi i rapporti di lavoro con i lavoratori assunti dall’affittuario entreranno in una fase di quiescenza, in attesa che il curatore opti per la loro prosecuzione o per il licenziamento.
14. Il diritto di prelazione per l’affittuario nella nuova legge fallimentare... Vorrei in particolare sottolineare la rilevanza di una di queste opzioni, che è quella connessa alla possibilità che il curatore riconosca all’affittuario il diritto di prelazione nella successiva vendita. Questa facoltà, che è una novità rilevante della riforma, e che inverte una tradizione giurisprudenziale negativa, di incompatibilità tra prelazione e vendite coattive, trova il suo antecedente, anche quanto a disciplina delle modalità di esercizio della prelazione, nell’art. 3 l. 223/91, che aveva già introdotto questo istituto per le imprese che potremmo definire socialmente rilevanti, cioè per le imprese soggette alla disciplina del trattamento straordinario di integrazione salariale. Le modalità di esercizio della prelazione corrispondono a quelle ora generalizzate dall’art. 104 bis l.f., ma vi è una differenza, e cioè che nel caso dell’art. 3 l. 223/91 si tratta di prelazione legale, nel caso dell’art. 104 bis l.f., e quindi per l’impresa non socialmente rilevante, si tratta pur sempre di prelazione convenzionale, che sussiste dunque solo se è riconosciuta all’affittuario nel contratto di affitto (all’estremo opposto il curatore può sempre inserire nel contratto una clausola di risoluzione automatica dell’affitto per il caso di vendita dell’azienda).
15. L’insolvenza delle imprese socialmente rilevanti. E’ necessario a questo punto aprire una parentesi, e trattare di due norme, che disciplinano gli effetti delle procedure concorsuali sui rapporti di lavoro in tali imprese e che collegano tre istituti, e cioè l’ammissione alla cassa integrazione, la prelazione per l’affittuario, ed anche la possibilità di accordi sindacali in deroga all’art. 2112 c.c. Una di queste norme è, come detto, l’art. 3 l. 223/91, che riconosce, al primo comma, il trattamento di integrazione per il caso di impresa assoggettata a una procedura concorsuale, quando “l’attività non sia stata disposta o sia cessata”. Questo inciso pone il problema di quale soluzione adottare, quando la produzione continui in regime di esercizio provvisorio, e tuttavia, per rendere lo stesso non antieconomico, il curatore non sia in condizione di impiegare tutti i dipendenti; si può pensare all’utilizzo della cassa integrazione consentita dall’art. 1 s.l., quando però ve ne siano le condizioni; le quali devono essere compendiate in una programma di ristrutturazione, che il curatore dovrebbe redigere, e che è difficilmente compatibile con la finalità e gli ambiti temporali dell’esercizio provvisorio. Si può poi rilevare che la norma non è stata coordinata con la riforma e quindi contempla ancora solo il concordato preventivo per cessione dei beni (quello per garanzia era escluso, perché esso, per sua natura, non incide sulla sorte dell’azienda e dell’impresa); ma oggi dovremo ritenere che la norma si applichi a tutti i concordati preventivi nella cui proposta sia previsto il trasferimento dell’azienda, da attuarsi ad opera degli organi della procedura.
16. L’obbligo del curatore di chiedere l’ammissione alla cassa. E’ un obbligo o una facoltà quella del curatore di chiedere l’ammissione alla cassa integrazione? Laddove si dia alla questione una risposta negativa, il ricorso alla cassa integrazione sarebbe possibile solo nella prospettiva della ripresa dell’attività o della cessione dell’azienda, e l’alternativa non potrebbe che essere il licenziamento e la messa in mobilità dei lavoratori. La tesi dell’obbligo però è largamente prevalente, e prende spunto dal confronto tra il primo e il secondo comma dell’art. 3 l. 223/91, perché solo il secondo comma richiede, per la proroga del trattamento, che vi siano “fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell’attività”. Di contro si è osservato che, se quello del curatore fosse un obbligo, non avrebbe senso prevedere una sua domanda di concessione del trattamento, perché la c.i.g. dovrebbe essere riconosciuta d’ufficio. La giurisprudenza della Cassazione si è orientata nel senso dell’obbligatorietà. Dovendosi esprimere sulla debenza dell’indennità supplementare prevista dal c.c.n.l. dei dirigenti, per il caso di licenziamento dovuto a procedure di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione industriale, la Cassazione ha ritenuto che le ipotesi previste siano quelle di crisi reversibile, ed ha differenziato queste ipotesi da quella di ammissione alla procedura di concordato, che concreterebbe di norma una situazione di crisi irreversibile, ed ha pertanto escluso che fosse dovuta la indennità supplementare (Cass. 14119/02). In altre parole, le due ipotesi di ricorso alla c.ig. previste dagli artt. 1 e 3 l. 223/91 sono diverse, perché solo la prima è diretta al risanamento dell’impresa, mentre la seconda, limitatamente alla istanza originaria di ammissione, svolge un ruolo di mero ammortizzatore sociale. E’ stato segnalato dalla dottrina che con tale ricostruzione dell’istituto entra in conflitto il d.p.r. 18/00 (che però, si badi bene è solo un regolamento) che ha esteso anche al caso delle procedure l’obbligo dell’esame congiunto tra imprenditore (nel caso di fallimento, ecc., sostituito dal curatore, dal commissario o dal liquidatore) e sindacati, il chè si giustificherebbe solo nella prospettiva di una rilevanza, per il provvedimento di ammissione, della predisposizione di un piano volto alla ripresa dell’attività. Nel caso di procedura concorsuale non è dovuto il contributo di mobilità previsto dall’art. 5, c. 4° l. 223/91. Questa esclusione vale anche quando la domanda di cassa di integrazione sia precedente l’inizio della procedura. Il fatto che la cassa integrazione “concorsuale” sia diversa da quella prevista dall’art. 1 fa anche ritenere che, nel caso di fallimento di impresa che già sia ammessa al beneficio, dalla data del fallimento decorra un nuovo termine, che, in altre parole, i due periodi di cassa integrazione non si sommano.
17. Le deroghe all’art. 2112 c.c. per l’impresa socialmente rilevante... A questa norma della l. 223/91 se ne collega un'altra, che, sempre per l’impresa socialmente rilevante, ammette la possibilità di deroga all’art. 2112 c.c., per effetto di un accordo sindacale. La disposizione è tutt’ora contenuta nell’art. 47, c. 5°, l. 428/90, e contempla l’accordo come effetto del confronto a tre tra cessionario, cedente ed organizzazioni sindacali, che l’articolo prevede come necessaria premessa di qualunque trasferimento d’azienda; con la differenza che, mentre nel caso di un’impresa non in crisi, questo confronto è fisiologicamente diretto alla conclusione dei c.d. accordi di armonizzazione, cioè di accordi che regolano, che specificano gli effetti dell’art. 2112 c.c., ma che non possono derogare in peius a questa disposizione, nel caso di impresa insolvente l’accordo può portare a derogare all’intero spettro dei diritti riconosciuti dall’art. 2112, e quindi può esentare il cessionario dall’assumere parte dei lavoratori del cedente, o può esentarlo dal riconoscere ai lavoratori la continuità del rapporto (può cioè stabilire che il cedente licenzi e il cessionario riassuma i lavoratori dell’azienda), o può esentarlo dalla responsabilità solidale per i debiti pregressi, o dall’applicazione dei trattamenti economici e normativi applicati prima del trasferimento. E’ bene ricordare che l’effetto purgativo della vendita fallimentare, che escludeva che il cessionario dovesse rispondere dei debiti pregressi, trovava un eccezione, secondo l’opinione dominante, proprio nei crediti di lavoro ex art. 2112 c.c., anche se si può segnalare una assai risalente sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva ritenuto il contrario, perché altrimenti l’acquirente avrebbe dedotto dal prezzo d’acquisto quanto dovuto ai lavoratori, trasformando nei fatti il loro credito in un credito prededuttivo. Invece, nell’ambito di trasferimenti d’azienda non segnati da situazioni di crisi o di insolvenza, lo stesso risultato di compressione dei diritti previsti dall’art. 2112 può essere raggiunto solo in sede di conciliazione, con accordi individuali. L’art. 47, 5° c., abilita invece direttamente gli accordi collettivi ad incidere negativamente su diritti riconosciuti dalla legge ai lavoratori, il ché pone uno dei problemi più delicati della materia, e cioè l’efficacia di tali accordi nei confronti dei lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti, di cui diremo oltre. Anche l’art. 47 l. 428/90 richiede, come l’art. 3 l. 223/91, oltre all’assoggettamento ad una procedura concorsuale (ovvero allo stato di crisi accertato dal CIPI) e al requisito dimensionale che dà diritto al trattamento di cassa integrazione, anche l’ulteriore condizione che “la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”, e quindi non consente che simili accordi abbiano corso e producano tali effetti sui rapporti individuali, quando questo presupposto non si realizza. Inoltre, anche l’art. 47, c. 5°, come la norma correlata dell’art. 3 l. 223/91, contempla solo il concordato per cessione di beni, e quindi vale anche qui quanto detto sopra dopo la riforma. Perché possa applicarsi questa disposizione è necessario che il trasferimento avvenga quando già è intervenuta la dichiarazione di fallimento o l’omologazione del concordato preventivo, la norma quindi non si applica a trasferimenti che avvengono in previsione dell’omologazione del concordato. E’ questo un portato anche della giurisprudenza comunitaria, che ebbe a statuire che condizione indefettibile per l’esonero del datore cessionario dalle garanzie previste per il caso di trasferimento di azienda è soltanto la soggezione a procedura concorsuale.
18. …e nella nuova legge fallimentare. La riforma ha introdotto, con l’art. 105 l.f., una nuova previsione di consultazione sindacale relativa al trasferimento d’azienda; però in questo caso, in considerazione del fatto che l’art 105 è dedicato alla vendita in sede fallimentare, la disposizione non riguarda l’affitto. Viceversa la disposizione della legge speciale riguarda ogni ipotesi di trasferimento, quindi anche l’affitto. L’art. 105 l.f. non dice se la consultazione sia sempre obbligatoria, alla sola condizione che permangano rapporti di lavoro, oppure quando si debba procedere ad essa. Penso si debba ritenere che essa sia rimessa alla discrezionalità del curatore, e può riconoscersi un ideale parallelo con la discrezionalità riconosciuta al curatore in punto di concessione della prelazione all’affittuario; il curatore eserciterà positivamente questa discrezionalità quando il raggiungimento di un accordo sugli assetti occupazionali e sulle condizioni di contratto può produrre effetti positivi nella ricerca di un acquirente. Quanto agli effetti avuti di mira con la consultazione, mentre trova conferma la possibilità di escludere parte dei lavoratori dal trasferimento alle dipendenze dell’alienante, non è riprodotta la formula drastica dell’art. 47, secondo cui non trova applicazione l’art. 2112 c.c., ma si dice, in modo più sibillino, che sono consentite le “ulteriori modifiche consentite dalle leggi vigenti”. D’altra parte le leggi vigenti consentono sì di andare oltre l’art. 2112 c.c., ma solo per le imprese che abbiamo definito socialmente rilevanti, non per le altre; e lo consentono solo quando “la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”.
19. Il ruolo del comitato dei creditori. Ho prima richiamato sinteticamente i rischi connessi alle scelte dell’esercizio provvisorio e dell’affitto dell’azienda per sottolineare la responsabilità posta a carico del comitato dei creditori, che oggi interviene in queste scelte con pareri di carattere vincolante. Nel comitato dei creditori è spesso presente, ed è opportuno che lo sia, un rappresentante dei lavoratori, e penso sia importante che questo rappresentante sia posto nella condizione di scegliere consapevolmente tra le opzioni in gioco. Lo stesso è a dire per l’attribuzione all’affittuario del diritto di prelazione. Si tratta di un’arma a doppio taglio; da una parte l’impegno ad acquistare, ad un prezzo non inferiore alla stima peritale dell’azienda, è un indice di serietà dell’affittuario, è una tutela dalla dispersione di valori aziendali e dell’avviamento. D’altro canto però è anche una disincentivazione per gli altri possibili aspiranti all’acquisto, e può indurre l’affittuario a trattenersi dall’investire nell’azienda, per non incrementare il suo valore, per non essere costretto poi a sborsare di più al momento dell’aggiudicazione. Questa delicatezza della decisione comporta quindi che la decisione degli organi fallimentari sia il frutto di una valutazione discrezionale complessa, nella quale oggi svolge un ruolo decisivo il comitato dei creditori, che è chiamato ad esprimere un parere vincolante (ex art. 104 bis, 2° c.).
20. La procedura di liquidazione delle attività... La necessità o l’opportunità di promuovere accordi sindacali rende necessaria una crasi tra due procedimenti, quello diretto al trasferimento dell’azienda, e quello diretto all’accordo sindacale. Nel caso dell’affitto, si può supporre un sequenza: bando, raccolta delle offerte, individuazione del migliore offerente, avvio delle trattative sindacali con eventuale accordo, conclusione dell’affitto nelle forme di diritto comune (e cioè con la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, prevista ai particolari effetti di pubblicità contemplati dall’art. 2556, 2° c., c.c.). La stessa procedura deve essere ripetuta per il caso di alienazione.
21. …e il nuovo ruolo del comitato dei creditori. Qualche considerazione va fatta anche sulle procedure di vendita, perché la scelta del procedimento, e cioè se vi debba procedere il curatore, o anche soggetti specializzati terzi, ovvero il giudice delegato, nelle forme della vendita con incanto (prescindendo qui dalla probabile inconciliabilità di tale tipo di vendita con la procedura sindacale) o senza incanto, è oggi rimessa alla proposta del curatore nel programma di liquidazione e alla scelta del comitato dei creditori che è chiamato ad approvare il programma. Il ruolo del giudice delegato è meramente notarile, perché l’art. 104 ter u.c., dice che il programma di liquidazione approvato è comunicato al giudice delegato che autorizza l’esecuzione degli atti ad esso conformi. L’autorizzazione del giudice quindi riguarda solo gli atti di esecuzione del programma di liquidazione, non il programma stesso, ed ha ad oggetto la conformità dell’atto al programma, non la sua opportunità e vantaggiosità (e salvo sempre il limite della legalità). Il controllo quindi sulla trasparenza delle procedure di vendita è quindi oggi del tutto privatizzato, ed è un punto che responsabilizza i membri del comitato dei creditori. Fa eccezione il solo caso di liquidazione dei beni prima del programma di liquidazione (art. 104 ter, sesto comma), che è possibile “quando dal ritardo possa derivare pregiudizio all’interesse dei creditori”, caso in cui è il giudice delegato che autorizza, sentito il parere del comitato dei creditori. Nel caso di vendita compiuta dal curatore, sparisce il decreto di trasferimento e l’effetto traslativo si realizza nei modi civilistici, che richiedono la forma scritta, ma a fini di prova e di opponibilità ai terzi. Si mantiene invece il potere del giudice delegato di bloccare il procedimento di vendita nei casi previsti dall’art. 108, 1° c., mentre il secondo comma contempla il decreto che realizza quell’effetto purgativo che prima ineriva al decreto di trasferimento. Le previsioni contenute nell’art. 108 l.f. fanno ritenere che la vendita endofallimentare, anche quando avvenga ad opera del curatore nelle modalità c.d. competitive, resti una vendita coattiva, e quindi ad essa sia applichino gli artt. dal 2919 al 2929 c.c.
22. L’efficacia erga omes degli accordi che accompagnano il trasferimento dell’azienda. Come detto, uno dei problemi maggiori riguarda l’efficacia dell’accordo per i lavoratori non inscritti ai sindacati stipulanti. La tesi favorevole poggia sulla considerazione che l’accordo in questo caso non sarebbe la fonte della compressione del diritto, ma solo il presupposto di fatto richiesto dalla legge, mentre l’effetto discenderebbe direttamente dalla legge (l’art. 47, 5° c. sarebbe dunque un caso riconducibile all’art. 1372, 2° c.). La Cass., a quanto mi consta, si è espressa in un solo caso in cui pare orientarsi in senso difforme; tuttavia occorre considerare che in quel caso era l’accordo stesso a prevedere come condizione di efficacia che lo stesso fosse sottoscritto dai lavoratori, quindi mi pare che il precedente non sia particolarmente significativo.
23. L’art. 105, 4° c.: una nuova eccezione all’art. 2112 c.c. Al di fuori degli accordi collettivi intervenuti tra curatela, cessionario e sindacati si applica anche alle vendite fallimentari l’art. 2112 c.c., salvo quanto oggi stabilisce l’art. 105, 4° c., e cioè che, salvo diversa convenzione, l’acquirente non risponde dei debiti sorti prima del trasferimento, quindi sia di quelli verso il fallito, sia di quelli eventualmente sorti durante l’esercizio provvisorio o l’affitto dell’azienda.
24. I licenziamenti collettivi ad opera del fallimento. Ci si domanda poi se, quando il trattamento di integrazione salariale non possa più essere proseguito, o quando il curatore intenda procedere a più di cinque licenziamenti, si applichi la procedura dei licenziamenti collettivi; secondo la tesi dominante questa procedura si applica solo in quei casi in cui vi sia possibilità di continuazione dell’attività di impresa, anche in forma parziale, non quando si proceda alla risoluzione di tutti i rapporti di lavoro; in tale caso, qualunque sia il numero dei licenziati, ci troveremmo di fronte quindi a licenziamenti individuali plurimi. Quindi il criterio da applicare per decidere della doverosità della procedura è se il curatore abbia un potere di scelta in ordine a chi licenziare. Anche questa materia può comportare il sorgere di controversie di lavoro; essendo controversie che nascono da un atto del curatore, vale quanto detto prima in ordine all’applicazione degli artt 24 e 52 l.f.
25. La c.i.g. e l’ammissione dei crediti di lavoro al passivo fallimentare. Per concludere sulla cassa integrazione, è opportuno affrontare brevemente i problemi che si pongono quando la richiesta della cassa sia già stata formulata dall’imprenditore al momento del fallimento. Quali conseguenze si determinano sulla sorte dei crediti di lavoro nel fallimento. Occorre distinguere due situazioni. La prima si ha quando prima del fallimento sia già intervenuto il provvedimento di ammissione alla cassa. Poichè in tal caso il datore di lavoro anticipa il trattamento integrativo posto a carico dell’Inps, ricevendo poi la provvista dall’Inps, egli non paga un debito proprio, ma è un mandatario o delegato al pagamento per conto dell’Inps, e perciò il lavoratore non ha diritto ad insinuarsi al passivo per le integrazioni dovute dall’Inps, ma dovrà rivolgersi direttamente all’Inps. Se poi l’imprenditore aveva già corrisposto le integrazioni, sorge il diritto di regresso del fallimento nei confronti dell’istituto. Se invece vi fosse stata solo la domanda, ma non ancora il provvedimento amministrativo, poichè il diritto all’integrazione sorge dal provvedimento, per intanto i crediti retributivi dovranno essere ammessi condizionatamente al passivo, e l’intervento del provvedimento varrà a sciogliere in senso risolutivo questa ammissione.
26. Il nuovo concordato preventivo. Il concordato preventivo, procedura alternativa al fallimento, è nella sostanza una proposta rivolta dall’imprenditore insolvente ai creditori diretta a concordare la misura di soddisfazione dei crediti e gli strumenti per realizzarla. Il sistema precedente conosceva due forme di concordato, quello mediante l’offerta di garanzie, e quello per cessione di beni, e, rispetto alla finalità propria dell’istituto, il risultato liquidatorio o conservativo dell’impresa era nella sostanza indifferente. Il concordato era inteso come un beneficio per l’imprenditore meritevole e sfortunato, non come uno strumento per risolvere la crisi dell’impresa, salvandone la presenza sul mercato. L’intento della riforma consisterebbe invece proprio nella finalizzazione del concordato alla prosecuzione dell’impresa, sia che essa continui ad essere esercitata dallo stesso richiedente il concordato ovvero sia trasferita ad un terzo, e quindi anche nella conservazione, insieme al compendio aziendale, dei posti di lavoro esistenti. Questa almeno è l’ideologia della riforma, perché in realtà bisogna dire subito che la prosecuzione dell’attività economica non è indicata come requisito necessario di ammissibilità della proposta e pertanto la proposta stessa può contemplare anche solo, né più né meno di prima, un’attività liquidatoria diretta alla soddisfazione dei creditori nella misura offerta; e non per questo, per il fatto di non prevedere la prosecuzione dell’impresa, vengono meno per il proponente i vantaggi della procedura concordataria rispetto ai rischi del fallimento. A questo punto va aggiunto che il presupposto del concordato non è più lo stesso del fallimento, e cioè l’insolvenza, ma uno stato di crisi che è qualcosa di meno dell’insolvenza. Qualunque cosa sia la crisi, più si arretra questa categoria rispetto all’insolvenza conclamata, più si consente all’imprenditore di sottrarsi alle obbligazioni assunte, proponendo ai creditori una soddisfazione parziale, e puntando alla approvazione del piano da parte della maggioranza. Si aggiunga anche che, essendo prevista per l’approvazione la sola maggioranza dei crediti (salva la presenza di più classi di creditori, nel qual caso si richiede in aggiunta anche la maggioranza delle classi), anche il voto di un solo creditore, per esempio una banca, può comportare l’approvazione del concordato; né in materia concordataria si è mai disciplinata la sorte del voto da parte del creditore in conflitto di interessi, quando invece di conflitti di interessi ve ne possono essere tanti, a cominciare da quei creditori che pattuiscono con il debitore garanzie personali per i loro crediti (e il tema del conflitto di interessi va oltre il concordato, si pensi al voto nel comitato dei creditori). Il sistema previgente condizionava l’omologazione del concordato non solo al consenso della maggioranza dei creditori, secondo quorum calcolati sia per testa che con riguardo all’ammontare dei crediti, ma anche ad un plurimo giudizio che aveva ad oggetto l’affidabilità della proposta (e cioè un giudizio prognostico in ordine alla presumibile idoneità della proposta a soddisfare i creditori nella misura minima di legge), la sua convenienza (con riguardo all’alternativa procedura del fallimento), oltre che la meritevolezza soggettiva del proponente. Dal giudizio sulla convenienza della proposta derivava in particolare che ai creditori, in sede di concordato, non poteva essere offerto meno del valore complessivo del compendio dell’impresa, come ricavabile dalla liquidazione fallimentare, ed anzi spesso doveva essere offerto di più, tenuto conto dell’attivo allora recuperabile dall’esercizio delle azioni fallimentari, in particolare le revocatorie. Oggi una prima importante differenza è costituita dal fatto che, venuto meno il giudizio di convenienza, la proposta concordataria non deve necessariamente investire l’intero patrimonio del debitore, potendo anche riguardare solo una sua parte. Le ulteriori condizioni di ammissibilità erano rappresentate da una percentuale minima di soddisfazione dei creditori chirografari, pari al 40%, e dalla necessaria integrale soddisfazione di tutti i creditori privilegiati. Quest’ultima condizione di ammissibilità era concordemente desunta dai cc. 2° e 3° dell’art. 177 l.f., che stabilivano che i creditori privilegiati non partecipavano al voto, e che, se lo avessero fatto, sarebbero stati declassati al rango di chirografari. La non partecipazione al voto era giustificata proprio dalla speciale tutela loro accordata, di modo che essi non avevano nulla da temere da un’eventuale omologazione. La posizione dunque dei lavoratori dipendenti, e dei prestatori d’opera in generale era pienamente tutelata.
27. La posizione dei privilegiati nel nuovo sistema delle classi creditorie. Il problema che sorge con la riforma è se i crediti privilegiati nel concordato preventivo continuino a godere di questa garanzia di integrale tutela. La novità con cui anche i creditori privilegiati devono fare i conti è data dall’introduzione, come possibile contenuto della proposta di concordato, della suddivisione dei creditori in classi, da identificarsi ad opera del proponente medesimo, ma “secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei” (art. 160 lett. c) e dalla possibilità di accordare ai creditori inclusi nelle classi trattamenti economici differenziati (art. 160 lett. d), e quindi anche pagamenti parziali dei crediti. L’istituto delle classi dei creditori, dei similar claims, è tratto dall’esperienza giuridica di altri paesi, ma si tratta di paesi che non conoscono l’istituto dei privilegi di fonte legale, o quantomeno lo conoscono in modo estremamente limitato. Il nostro ordinamento fallimentare si trova invece oggi a dover sperimentare la convivenza di un articolato sistema di privilegi legali, con una possibile organizzazione per classi del ceto creditorio, per iniziativa di una parte privata. I criteri di formazione delle classi non sono liberi; su di essi vigila il Tribunale, ex art. 163, 1° c. ultima parte. Infatti, essendo la suddivisione dei creditori in classi, se proposta, uno dei presupposti dell’art. 160 l.f., quando questi presupposti non ricorrono, quando quindi la suddivisione non sia corretta, l’art. 162 prevede che il Tribunale dichiari la proposta inammissibile. Da notare che all’inammissibilità non segue più d’ufficio il fallimento del proponente, perché è necessario che vi sia un’istanza di un creditore e del p.m., ed è necessario che sussistono i requisiti soggettivi della fallibilità; questa modifica, introdotta con l’ultima novella legislativa, rende coerente l’art. 162 con la disciplina complessiva del concordato, perché per accedere a tale procedura non è più richiesta l’insolvenza, ma qualcosa di meno e cioè lo stato di crisi; quindi, comunque si definisca lo stato di crisi, la domanda di concordato non significa più automaticamente ammissione di insolvenza. E’ intuitiva l’importanza del controllo giudiziale sui criteri di formazione delle classi, perché il creditore potrebbe avvalersi di creditori amici, ad esempio creditori che dispongono di garanzie personali esterne al concordato, o creditori cui è stata assicurata la prosecuzione dei rapporti commerciali, e distribuirli strategicamente nelle classi per garantirsi la maggioranza in ciascuna di esse. Quanto ai criteri di legge che devono presiedere alla loro formazione, oltre al principio enunciato dall’art. 260, 1° c., lett. d) l.f., deve tenersi conto oggi di quanto sancisce l’ultimo periodo del 2° c. della medesima disposizione, e cioè che il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione. Questo secondo principio, ove si ammetta che le classi possano comprendere anche creditori muniti di privilegio generale sui mobili, comporta a mio avviso conseguenze di rilievo, impedendo che la formazione in classi si ispiri ad una razionalità diversa da quella posta a base dell’ordine legale dei privilegi. Si pensi ad esempio alla possibilità di considerare unitariamente la categoria dei collaboratori nell’impresa, con implicita elisione dalla definizione della classe, dall’elemento della eterodirezione ex art. 2094 c.c.; ovvero alla possibilità di unificare nel trattamento i piccoli imprenditori, siano essi commercianti e artigiani, con ricostituzione quindi anche agli effetti del concorso della categoria del piccolo imprenditore ex art. 2083 c.c. In entrambi i casi si tratterebbe di classi che rispondono al requisito di comprendere in sé posizioni giuridiche ed interessi economici omogenei, rispondendo quindi ad un criterio di razionalità, ma che pongono sullo stesso piano o creditori muniti di diverso grado di privilegio o creditori privilegiati e chirografari. In ogni caso, alla domanda se possa essere proposta ai creditori muniti di privilegio generale sui mobili una soddisfazione parziale dei crediti, mi pare debba darsi oggi una risposta tendenzialmente positiva, perché se è vero che gli attuali cc. 3° e 4° dell’art. 177 hanno mantenuto il principio per il quale i creditori privilegiati non votano, e se votano perdono il privilegio, e anche vero che il c. 3° precisa che i creditori che non hanno diritto di voto sono quelli muniti di privilegio, pegno o ipoteca “dei quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento”. Quindi si deve supporre che la proposta possa anche non prevedere l’integrale pagamento di queste categorie di creditori, e in tal caso essi sono ammessi al voto, a meno che non si voglia intendere questo inciso in modo pleonastico, cioè come meramente assertivo di una condizione di vantaggio assicurata ai creditori privilegiati; il ché sarebbe anche possibile, se non fosse che l’inciso è stato introdotto dal correttivo, non c’era nella precedente formulazione della norma, e allora pare arduo sostenere che il legislatore non l’abbia fatto con lo scopo di innovare alla disciplina preesistente. Deve anche rilevarsi la novità, costituita dal secondo comma dell’art. 160 l.f., che per i privilegi speciali, per il pegno o per l’ipoteca, consente sì la possibilità di una soddisfazione non integrale, ma solo per il caso di presumibile incapienza del bene, e solo per la parte di credito che eccede il valore del bene. Si tratta dell’estensione al concordato preventivo di quanto l’art. 124 l.f. già disponeva per il concordato fallimentare. Questa disposizione è stata utilizzata da Giovanni Lo Cascio in un suo scritto per sostenere che, costituendo essa l’unica ipotesi prevista dalla legge di limitazione della soddisfazione dei privilegiati, non sarebbero consentiti trattamenti differenziati dei creditori muniti di privilegio generale. “Pensare che la limitazione introdotta dal decreto correttivo per i creditori assistiti da una preferenza speciale possa estendersi anche a coloro che godono di privilegio generale non è assolutamente pensabile, perché non è ipotizzabile nel concordato un’insufficienza del patrimonio su cui si esercita il privilegio generale”. E’ una posizione che tuttavia non dà conto di quell’inciso del terzo comma dell’art. 177 di cui abbiamo detto. Inoltre, anche se si ammettesse che i creditori privilegiati conservano il loro diritto all’integrale soddisfazione, resterebbero aperti molti problemi. Innanzitutto a me pare che la previsione di classi non sia necessariamente sinonimo di offerta di percentuali di soddisfazione differenziate. Questo lo si ricava dall’art. 160 l.f. dove la suddivisione in classi e la proposta di trattamenti diversi sono contemplati come requisiti distinti della proposta, alle lettere c) e d), non necessariamente implicati l’uno dall’altra. Questo significa ad esempio che la suddivisione di classi potrebbe essere imperniata non sulla percentuale offerta, ma sulla destinazione di compendi separati di beni al pagamento di distinti gruppi di creditori, senza promessa di una percentuale di soddisfazione.
28. L’atipicità della proposta concordataria. Inoltre va rilevato che il principio dell’integrale soddisfazione dei creditori, anche ove fosse mantenuto in astratto, deve fare i conti con la proposta concordataria, che oggi non è più incanalata entro due sole modalità previste dalla legge, ma può assumere una molteplicità di contenuti, ed in particolare può consistere nell’offerta di valori non liquidi ed anche aleatori. Può consistere ad esempio nell’offerta di azioni ed obbligazioni, nell’intervento di un assuntore, nella mera ristrutturazione dei debiti, e più in generale può consistere nella soddisfazione dei crediti “in qualsiasi forma”. La lettera b) prevede la fattispecie dell’intervento di un assuntore, che può essere rappresentato anche da società costituite tra i creditori stessi, le cui azioni siano “destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato”, il ché significa che proprio l’attribuzione delle azioni della società assuntrice può costituire una forma di soddisfazione delle pretese del ceto creditorio. Anche in tale prospettiva, si pone il problema della tutela dei creditori privilegiati, a fronte di proposte concordatarie che propongano modalità di soddisfazione non immediatamente liquide, a fronte del fatto che essi, non partecipando alla votazione, non possono far valere in quella sede, se non rinunciando al privilegio, la loro eventuale opinione contraria. Può ritenersi ammissibile una proposta di concordato preventivo che preveda una moratoria nel pagamento dei crediti di lavoro, senza maturazione, per il tempo della moratoria, di interessi e rivalutazione? Ovvero una proposta che individui un cessionario dell’azienda, eventualmente costituito mediante la partecipazione dei lavoratori, che si accolli il debito con liberazione del proponente? E che tipo di trattamento deve essere riservato in tal caso ai creditori privilegiati in sede di voto? Devo anche rilevare che, quantunque l’art. 160 l.f. non ne parli espressamente, molte delle soluzioni ipotizzate possono richiedere un trasferimento di azienda, o di rami di essa; il ché rende necessario innestare sul tronco della procedura concordataria, le procedure di consultazione sindacale che prima abbiamo considerato; con la precisazione che, se il trasferimento dell’azienda precede l’omologazione del concordato, la disciplina e gli effetti di tali procedure saranno solo quelli previsti dalla legge comune. Se invece esse seguono l’omologazione, si dovrà ricorrere alle forme competitive dell’art. 107 l.f., con applicazione delle normative dettate per le imprese assoggettate a procedure concorsuali dalla l. 223/91 e 428/90.
29. Il controllo giudiziale sulla proposta di concordato. Vi è poi il tema controverso dei controlli giudiziari sulla fattibilità e sulla convenienza della procedura concordataria, e cioè i controlli che prima erano previsti sull’idoneità della stessa a soddisfare i creditori nella misura minima prevista dalla legge (oggi si dovrebbe dire nella misura promessa), e a soddisfarli in modo non inferiore a quanto potrebbe ritrarsi dal fallimento. Per quanto riguarda la fattibilità, la questione si concentra sul significato da attribuire all’oggetto del giudizio di ammissibilità, costituito, secondo la dizione dell’art. 162, dai presupposti di cui all’art. 160, comma primo; tra questi presupposti vi è quello che la proposta deve prevedere la soddisfazione dei crediti “attraverso qualsiasi forma”; si tratta di vedere se il Tribunale debba limitarsi ad un controllo estrinseco, e se la proposta si conformi, per come è espressa, alla fattispecie prevista dalla legge, ovvero debba andare oltre, ed investigare se la proposta sia idonea a consentire la soddisfazione promessa. A me sembra che, per risolvere il dubbio, si debba richiamare l’ultimo comma dell’art. 173, che, successivamente all’ammissione al concordato, prevede che il Tribunale possa in ogni momento revocare tale ammissione, se “risulta che mancano le condizioni prescritte per l’ammissibilità al concordato”. Ora, se la condizione di ammissibilità attenesse solo al contenuto forma della proposta, il giudizio del Tribunale dovrebbe essere dato una volta per tutte al momento dell’ammissione, e non vi sarebbe più ragione di ritornare su di esso. Viceversa, se è possibile rivalutare la materia in un momento successivo, e pervenire ad una conclusione diversa da quella iniziale, ciò accade solo perché si valutano elementi nuovi, che non attengono più alla proposta, ma alla realtà sottostante, cioè alla corrispondenza tra la stima del passivo e dell’attivo contenuta nella proposta e quella emersa nel corso della procedura. E’ invece preclusa al Tribunale, sino alla omologazione, il giudizio sulla convenienza del concordato, che è rimesso ai creditori, che la esprimono al momento del voto. Il controllo sul merito della proposta si ripropone in sede di omologazione, mediante lo strumento dell’opposizione, cioè uno strumento attivabile ad impulso di parte; l’art. 180 non dice chiaramente chi possa proporla e quale sia il suo oggetto, ma a me sembra che quanto alla legittimazione attiva essa spetti a “qualunque interessato” che la legge ammette ad intervenire all’udienza di omologa; e quanto al tema del giudizio, che esso investa anche il merito della proposta, come si ricava dal fatto che il commissario deve depositare il suo motivato parere e che il Tribunale può disporre mezzi istruttori, anche d’ufficio. C’è poi la singolare previsione del secondo periodo dell’art. 180, quarto comma, che riguarda il caso in cui il creditore di una classe dissenziente (si deve supporre che anche il creditore contestante sia dissenziente) contesti la convenienza della proposta; in questo caso il tribunale effettua un giudizio di convenienza del concordato, ma riferito alla sorte del credito della classe del contestante, non a quella dell’intero ceto creditorio. Perchè allora non ammettere ad una analoga possibilità di contestazione il creditore dissenziente di una classe consenziente, o il creditore dissenziente di una proposta concordataria senza classi, o anche il creditore non ammesso al voto, quando affermi un pregiudizio derivante dal concordato?
30. La risoluzione del concordato. Una garanzia ulteriore può oggi ravvisarsi nella risoluzione del concordato per il caso di inadempimento (art. 186). Nella vigenza della vecchia normativa il concordato si risolveva se non erano pagati i creditori privilegiati e se non si corrispondeva una sia pur minima percentuale ai chirografari. Oggi si risolve per inadempimento, quando esso non abbia scarsa importanza. Vanno in proposito fatte due osservazioni; la prima è che a tenore dell’art. 160 non è detto che la proposta di concordato debba assicurare la soddisfazione di una percentuale di credito, perchè l’indicazione di una percentuale di pagamento non è indicata tra i requisiti della proposta; quindi se non c’è un’offerta in tal senso, non c’è nemmeno inadempimento; la seconda è che comunque restano esclusi dalla revocatoria nel successivo fallimento gli atti compiuti in esecuzione del concordato.
31. Gli accordi di ristrutturazione. Va fatta infine menzione degli accordi di ristrutturazione. Questi accordi non possono considerarsi procedure concorsuali in senso proprio, perchè essi non si rivolgono necessariamente all’intero ceto creditorio, né nel senso che per essi si richieda che tutti i creditori siano posti a conoscenza della proposta, né nel senso che si richieda il formarsi di una qualche maggioranza di consenzienti su di un’unica proposta, perché il consenso potrebbe essere ottenuto a condizioni diverse per ciascun creditore, né nel senso infine che vi sia una vincolatività dell’accordo per i non consenzienti; salvo però che l’accordo blocca le azioni cautelari ed esecutive per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese (e per converso sospende la prescrizione dei diritti), ed inoltre gli atti compiuti in esecuzione dell’accordo si sottraggono all’azione revocatoria nel caso di successivo fallimento. Il contenuto degli accordi può essere il più vario, poichè nella nozione di ristrutturazione possono rientrare la concessione di garanzie collaterali, la postergazione, la rinuncia, la fissazione di nuovi termini di pagamento, la conversione del debito in capitale. Come detto non si richiede che tutti i creditori siano informati dell’accordo, e nemmeno si richiede, se si accoglie la tesi che intende l’accordo come sommatoria di tanti distinti contratti con ciascuno dei creditori, quindi come una fattispecie a formazione progressiva, che un creditore sia informato delle condizioni praticate agli altri. E poiché l’accordo è reso pubblico tramite il registro delle imprese, la conoscenza dell’accordo, anche al fine dell’opposizione giudiziale ad esso, richiede consuetudine alla consultazione del registro; cosa che non è nelle corde dei dipendenti Vi sono poi ulteriori problemi: quello della forma dell’atto, su cui la legge non dice nulla, nel senso che non richiede la forma pubblica e nemmeno la data certa, quando invece si rende necessario garantire la autenticità delle dichiarazioni dei creditori, e mi domando quali siano i limiti del sindacato del conservatore del registro sulla forma degli atti e quindi sulla loro ricevibilità; c’è anche il problema del momento cui riferire il calcolo della percentuale di credito richiesta, se al momento della conclusione dell’accordo (e in tal caso si renderebbe necessaria la data certa), se al momento della pubblicazione nel registro (tra parentesi credo che questa sia la prima volta in cui la legge parla di pubblicazione, e non di iscrizione o di deposito degli atti nel registro delle imprese), se al momento della decisione del tribunale nel caso di opposizione. Certamente, i creditori non sono suddivisibili in classi, proprio perché le condizioni per così dire praticate possono variare da creditore a creditore, quindi siamo anni luce lontani dalla par condicio; e mi sembra che, non essendo prevista anche un’esenzione dai reati fallimentari, a certe condizioni il contenuto degli accordi possa risolversi in bancarotte preferenziali. Ogni interessato può proporre opposizione, ma anche qui c’è da domandarsi quale sia l’oggetto dell’opposizione; la legge non chiede che l’accordo realizzi il risanamento dell’impresa e dunque il controllo giudiziale avrà ad oggetto da un lato l’attuabilità dell’accordo, cioè degli impegni presi dal debitore; dall’altro la fattibilità del pagamento integrale dei creditori estranei.
32. Conclusione. Volendo trarre una conclusione da questo excursus, vorrei richiamare un recente intervento di Fabiani, che osservava come nel confronto tra economia e diritto, la riforma della legge fallimentare abbia segnato più di un punto a favore dell’economia. Il ceto creditorio non è un ceto omogeneo. Finanziatori, consumatori, fornitori, lavoratori sono gruppi differenziati già sul piano sociologico, e il sistema si mostra scoperto dal punto di vista della tutela del creditore di minoranza dagli abusi del creditore di maggioranza. L’interpretazione e la prassi si incaricheranno di trovare nuovi bilanciamenti di interessi, ed il futuro potrebbe consegnarci nuove tutele in tema di conflitto di interessi e di responsabilità connesse, sia degli advisors, che dei creditori di maggioranza. Sarebbe bene che i diversi ceti creditori, e quindi anche i creditori lavoratori, forgiassero strumenti di acquisizione di conoscenze e di valutazione, di cui oggi dispongono creditori economicamente più forti e più strutturati.
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